Tre mostre a Ginevra: diaspora, condizione femminile e corpo
Provengono da Berkeley, dal Brasile e da Buenos Aires le tre protagoniste delle mostre ginevrine che intrecciano l’attualità del dibattito alla rilettura storica della condizione femminile
Al Centre d’Art Contemporain di Ginevra sono di scena, scelte dal direttore Andrea Bellini, tre artiste provenienti da diverse parti delle Americhe. La loro più recente attività, già ricca di riconoscimenti internazionali, la troviamo qui esposta e performata in un intreccio di installazioni e di azioni, scansionata per ognuna di esse su un diverso piano della Kunsthalle ginevrina. Se è oggi frequente imbattersi in esposizioni focalizzate sui temi del corpo, della minoranza e della rilettura storica della condizione femminile, c’è da dire che queste tre operatrici si distinguono per la vena di autenticità che pervade i loro lavori e per la fortissima personalità. È la stessa presenza psico-fisica a essere messa in gioco, e il messaggio sociale che ci viene lanciato risulta veicolato attraverso una indefettibile partecipazione esistenziale, per cui le risultanze artistiche sono fatte interagire con le sfide della vita, con le emozioni e le passioni vissute in prima persona, prima di ogni filtro ideologico o preconfezionata istanza teorica.
Tre mostre al CAC di Ginevra
Le tre diverse esposizioni si richiamano le une con le altre e intessono un dialogo fatto di gesti, di parole, di oggetti che diventano testimonianza e metafora, lascito residuale e grido di protesta, dichiarazione di presenza e scrigno di memoria. Circola una dinamica di energie che nasce dal contrasto tra un sentimento di dispersione, dilapidazione, perdita, e l’aspirazione alla resilienza e alla durata, al tentativo di riannodare i fili dispersi, a rintracciare e rivitalizzare le narrazioni di racconti caduti nell’oblio, a salvare dall’estinzione tradizioni, eredità, patrimoni di cultura. Il tutto legato a diverse declinazioni del concetto di embodiment, che si riferisce ai modi e alle influenze culturali che condizionano la percezione e l’esperienza del corpo.
I Tumblers di Steffani Jemison
Steffani Jemison (Berkeley, California, 1981) propone qui i suoi Tumblers, specie di zangole girevoli e trasparenti contenenti rimasugli minerali e frammenti di oggetti in cui si ricrea l’azione erosiva delle onde del mare. Il detrito – ciò che resta, ciò che sopravvive all’usura di forze avverse – è anche dispiegato su vaste piattaforme orizzontali, in cui si susseguono cocci di vetro e frantumi di plastica recuperati per l’occasione nelle acque dell’adiacente Lago Lemano. Nell’azione intitolata In Succession (Means), qui interpretata dall’artista insieme a Nimia Gracious e Loren Tschannen, questa polarità di resistenza ed esaurimento, di energia ed entropia, si dispiegava nelle movenze ginniche dei protagonisti, alle prese con la struttura di tubi metallici che si estende e si eleva al centro della sala come un piccolo ziggurat. La performance si concludeva con una serie ripetuta di atti stremati, di accasciamenti ritualizzati, come un susseguirsi rallentato di parafrasi gestuali di una Deposizione.
La mostra di Jota Mombaça
Questa dialettica, tra ciò che si perde e ciò che sopravvive rigenerandosi, la ritroviamo anche nel progetto espositivo intitolato Material Girl / All That You Touch, di Jota Mombaça, (Natal, Brasile, 1991) in cui la sottomissione alla colonizzazione, alla discriminazione, allo sfruttamento viene vista, simbolicamente, ma anche fisicamente e materialmente, come un processo di consunzione e di estenuazione, ma al tempo stesso di affinamento, di sopravvivenza, di presa di coscienza, di rinascita. Ecco così spiegato il senso di un’opera come Ghost (2022-23), che consiste nel dispiegamento di grandi pezze di tessuto lasciate per lungo tempo in immersione in particolari zone di oceano, all’incrocio di correnti marine, ma anche culturali, al centro di quelle coordinate geografiche dove il destino degli schiavi e degli sfruttati s’incrocia con quello dei colonizzatori: il globo terracqueo visto come un campo di forze incrociate e contrapposte, come uno spartito in cui far riaffiorare le scie di innumerevoli storie dimenticate, in uno scontrarsi di culture e in un perpetuarsi di egemonie. Dunque, il ricorso alla simbologia dell’azione dell’acqua: ma anche il fuoco fa la sua apparizione, come nella performace effettuata nel cortile del museo, Thus We Disappear, in cui i fogli su cui erano scritti i testi declamati in pubblico finivano ad uno ad uno in un braciere, evocando incendi realmente avvenuti e ritualizzando il rimpianto per tutte quelle documentazioni, testimonianze e memorie andate in fumo.
La mostra di Julieta Hanono
La storia di Julieta Hanono (n. Buenos Aires) parte da molto lontano e si intreccia con le tormentate vicende politiche del suo paese, l’Argentina: giovanissima, già in prima linea per la difesa dei diritti civili ai tempi della dittatura, fu perseguitata dal regime e conobbe lunghi periodi di carcere. Il suo lavoro al quarto piano del CAC, Une cosmologie à partir de Violeta Parra, consiste in un’installazione accompagnata, anche qui, da una performance, eseguita, in questo caso, in veste di chansonnière. Le labirintiche scritte ricamate sulle stoffe che fluttuano appese al soffitto si riferiscono al suo incontro con i costumi e le credenze del popolo indigeno Qom e alla sua storia personale, attraverso un incrociarsi di lingue diverse.
La performing art in Hanono
Nella sua azione performativa Hanono prende spunto dalle composizioni di Violeta Parra, la mitica cantante e artista cilena scomparsa nel 1967, anche lei – ricordiamo il motivo del cuerpo repartido – narratrice di dispersioni e ricongiungimenti. Far risuonare, in questo contesto di racconti e di miti, il lascito spirituale che tali canzoni rappresentano, diventa allora forse una sorta di collante, un tentativo di ritrovare, seguendo questo filo di versi e di motivi, l’ordine smarrito del discorso, e al tempo stesso compiere un rituale dal sapore quasi sciamanico, un omaggio che diventa cerimonia apotropaica, assunzione di responsabilità, garanzia di continuità ideale.
Alberto Mugnaini
Ginevra//fino all’8 settembre 2024
Steffani Jemison, Tumblers
A cura di Andrea Bellini
Jota Mombaça, Material Girl / All That You Touch
A cura di Andrea Bellini
Ginevra//fino al 13 ottobre 2024
Julieta Hanono, Une cosmologie à partir de Violeta Parra
A cura di Mara Montanaro
CAC- Centre d’Art Contemporain Genève
Rue des Vieux-Grenadiers 10
1205 Ginevra
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