A Rovereto la mostra dedicata a arte e fascismo ideata da Vittorio Sgarbi
Nell’arte non c’è Fascismo. E nel Fascismo non c’è arte”. È questo il motto non senza un po’ di polemica da cui parte il percorso espositivo dedicato all’arte nel Ventennio in corso a Rovereto
Sorseggiare un “camparino” sì, è arte, ma abbracciare un fascio littorio no? Va bene l’atmosfera metafisica delle periferie industriali ma pollice verso per le copertine di riviste di partito? Le sorti di Fortunato Depero e di Mario Sironi, venerati protagonisti dell’arte italiana tra le due guerre ma censurati o almeno messi in ombra nella loro veste di adepti e propagandisti del regime al potere, sono due casi esemplari di un inveterato bigottismo ideologico o di un inconscio impulso alla rimozione di un vasto settore della cultura italiana.
Arte e Fascismo al Mart di Rovereto
Se a decine e decine di esposizioni abbiamo assistito in questi ultimi anni che abbiano avuto per oggetto l’arte compresa nel periodo del Ventennio, ecco ora al Mart di Rovereto una mostra in cui il Fascismo da sfondo storico diventa motivo dominante, non più visto come quinta di un palcoscenico su cui gli artisti si trovavano, talvolta loro malgrado, a recitare, ma come un sistema che, con tutte le sue oscillazioni e contraddizioni, nel campo della cultura costituì un crogiuolo e un incubatore di tendenze vitali e diversificate, unico caso nella storia dei regimi totalitari in Europa. Arte e Fascismo, infatti, come spiega chiaramente Beatrice Avanzi, una delle due curatrici, “intende presentare in tutta la sua complessità e varietà la produzione artistica nel ventennio fascista, senza negazioni, senza reticenze, con la consapevolezza che la nostra storia non va cancellata. Sappiamo che il Fascismo è stato senza dubbio il periodo più buio della nostra storia recente, ma Fascismo non significa arte di regime”.
Il ritratto di Margherita Sarfatti
Dopo aver constatato che, esaurita l’energia delle prime avanguardie, l’arte italiana non si insabbiò nelle secche di un realismo celebrativo e prono ai dettami del potere ed ebbe anzi una fioritura e un’originalità ancora tutta da riconoscere e da affermare a livello internazionale, se dovessimo indicare un personaggio determinante, o almeno fondamentale nelle scelte della politica culturale dell’epoca, non potremmo riferirci che a lei, l’aborrita amante di Mussolini e l’esaltata sacerdotessa della svolta artistica dell’Italia fascista: Margherita Sarfatti. È il suo ritratto giovanile (1916-1917) schizzato da Mario Sironi ad introdurci a questa rassegna: accennato a tratti veloci di pastello, non ancora in linea con lo stile tipico dell’artista, si mostra come una prova acerba e inconclusa, quasi a simboleggiare il germe onnicomprensivo di tutti gli straordinari e diversificati svolgimenti che, negli anni seguenti, conoscerà la nostra arte nazionale.
Dal Futurismo al Realismo Magico
E accanto ad esso, ecco che subito si prosegue con un capolavoro maturo del suddetto maestro, Solitudine (1925-1926). Sarfatti e Sironi: come a dire “Novecento”, il movimento di cui essi furono rispettivamente musa e portabandiera. Ma se questa tendenza di recupero dell’antico fu la prospettiva privilegiata e in certo senso ufficiale, accanto ad essa proliferarono altre vitalissime propaggini: dal secondo Futurismo al Realismo Magico, dall’astrattismo geometrico ai primi movimenti più o meno sotterraneamente antagonistici, come “Corrente” o la Scuola Romana.
La rassegna, che si articola in diverse sezioni e comprende ben quattrocento opere, parte dunque dai lavori ispirati al culto della classicità e dell’italianità propri di “Novecento”: oltre a Sironi emergono qui Achille Funi con La Terra (1921), Giorgio Morandi con una Natura morta dai toni bruni e ocra del 1929, Massimo Campigli con Passeggiata delle educande (1929-1930) e Felice Casorati con Beethoven (1928).
Il volto di Mussolini
La sezione successiva, L’immagine del potere, è quella senz’altro destinata a suscitare le maggiori polemiche e ad eccitare la sdegnosa ipersensibilità dei rappresentanti della cancel culture, ed è dedicata in gran parte a fornirci una campionatura delle innumerevoli guise in cui il capo del regime fu immortalato. Chi può negare, del resto, che la conformazione ossea del volto del “Mascellone” (uno degli innumerevoli epiteti con cui Carlo Emilio Gadda bollava Mussolini) avesse un’invidiabile allure plastica? Cranio e mandibola del duce, a differenza della flaccida fisionomia del suo omologo teutonico, sembravano fatti apposta per essere spalmati in forme scultoree di arcaica essenzialità, come nel Condottiero (1929) di Ernesto Michahelles detto Thayaht, o di fluido dinamismo, e si vedano qui i molteplici esemplari del Profilo continuo di Renato Bertelli. Oltre a queste interpretazioni dell’effigie mussoliniana in cui la personalità dell’artista si sovrappone comunque alla contingenza del motivo ottenendo risultati di grande nitore e originalità, non mancano derive più olezzanti di “servo encomio”, come il Mussolini a cavallo in versione “napoleonide” che appare ne La prima ondata (1930) di Primo Conti, il quale, da enfant prodige futurista che era, si trova qui a vestire i panni di redivivo pompier.
Da Depero a Arturo Martini
Altra sezione, altri motivi: si esamina ora il ruolo del secondo Futurismo e quindi l’esaltazione dell’azione. Qui, come è giusto, tiene banco il genius loci, l’artista eponimo roveretano: “nero”, in questo caso, ma pur sempre Depero. Le sue tarsie tessili in lode del regime, come quella intitolata senza troppi giri di parole Fascismo (1925), partecipano dello stesso umore festoso e della stessa freschezza delle sue creazioni più iconiche e vulgate. Segue poi una sezione dedicata alle molteplici declinazioni che conobbe l’arte monumentale, strumento di propaganda e di educazione: statue, mosaici, pitture murali. Qui, oltre alle grandi composizioni del solito Sironi, spiccano per qualità i bozzetti in bronzo per il monumento al Duca d’Aosta (1934) di Arturo Martini. Non poteva essere tralasciato un approfondimento sull’architettura e il suo rapporto con le arti, nella parte che vede i riflettori puntati sui progetti e sulle realizzazioni dei maggiori architetti dell’epoca: Giuseppe Terragni, Marcello Piacentini, Francesco Mansutti Figini e Pollini, Angelo Mazzoni, Adalberto Libera. Su questi motivi non mancano di sintonizzarsi anche gli artisti, in primis i continuatori dell’Astrattismo in Italia, come Manlio Rho o Mario Radice, del quale possiamo qui notare, fra l’altro, un sorprendente studio per Mussolini a cavallo (1935 circa).
La Metafisica e Alberto Savinio
Nella sezione Nuovi miti si esaminano i più diffusi temi che l’ideologia fascista suggerisce agli artisti, che se da un lato evocano un olimpo di combattenti, di eroi e di atleti, dall’altro mettono in rilievo eroismi più prosaici e quotidiani, di lavoratori e di padri di famiglia che con il loro oscuro contributo vanno a costituire le fondamenta economiche dello stato. Ma non mancano mitologie decisamente più personali, come Les deux nus (1925), di un de Chirico classicistico che già sta incubando i motivi della sua seconda Metafisica, o come Le poète (1931) di Alberto Savinio. Si passa quindi a Il sistema delle Arti, sezione che mette in rilievo l’organizzazione culturale del regime: come ci spiega l’altra curatrice, Daniela Ferrari, “gli artisti furono in un certo senso indirizzati e aiutati da un governo che organizzò una serie numerosa di mostre attraverso il sindacato fascista delle Belle Arti e fece in modo che essi fossero riuniti in un sistema”. Ma eccoci infine al terribile epilogo, cui è dedicata la sezione La caduta della dittatura: opere come le Fantasie di Mario Mafai o le telluriche e corrosive immagini della serie Dux di Mino Maccari, eseguite nei primi anni Quaranta, rappresentano la marcia funebre di ogni illusione e svelano il lato tragico e sinistro di una dittatura che negli ultimi anni ebbe a mostrarsi sempre più scellerata. Nata, come del resto è la regola per le esposizioni del Mart, “da un’idea di Vittorio Sgarbi”, che ne è il presidente, questa mostra, più delle altre, risente del suo tocco polemico, con qualche consueto guizzo personalistico, fin dall’incipit, dove campeggia il motto sgarbiano: “Nell’arte non c’è Fascismo. E nel Fascismo non c’è arte”. Lapalissiano, paradossale o discutibile, sta alla sensibilità di ciascuno di noi decidere.
Alberto Mugnaini
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