Illuminare le mostre. Chi è e cosa fa un light designer
Ti sei mai lamentato per una mostra illuminata male? O, al contrario, hai apprezzato moltissimo l’atmosfera perfetta creata attorno a un quadro? Nel bene e nel male è opera del light designer
Ti è mai capitato di lamentarti per una mostra illuminata male, con riflessi sulle opere o dipinti invisibili perché lasciati pressoché al buio? Oppure di apprezzare un’illuminazione perfetta? Probabilmente sì. E infatti calibrare i punti luce è un’operazione complessa, che fa la differenza sulla fruibilità di un’esposizione. Tra i professionisti che “accendono i fari” sulle mostre italiane più importanti c’è Francesco Murano, che in questa intervista racconta cosa significa essere lighting designer.
Chi è il light designer Francesco Murano
Come è nata la sua passione per la luce?
È stato cruciale un corso che ho frequentato alla Domus Academy, dove incontrato Clino Trini Castelli, fondatore della disciplina chiamata ‘design primario’ e che si occupa di tutto ciò che è immateriale, come il suono, la luce, gli odori… Ho così cominciato a pensare alla luce non come semplice strumento di illuminazione ma come mezzo che potesse creare delle emozioni. Ad esempio quando illumino i dipinti cerco di capire come deve finire la luce sul muro, cioè in modo brusco, con un effetto molto definito e drammatico, oppure sfumando verso il buio.
Ci racconta la sua prima esperienza in quest’ambito?
La mia prima mostra è stata la monografica su Edward Hopper allestita al Museo di Roma nel 2010. Quando è arrivata la proposta, ho cominciato a testare tutte le lampadine disponibili per valutare il loro effetto e per caso ho provato a usare simultaneamente una lampadina a luce calda e una a luce fredda: l’opera esplodeva di colori. Per l’allestimento ho quindi usato questo metodo che garantisce un’incredibile luminosità pur rimanendo all’interno dei lux massimi concessi.
I segreti del light designer raccontati nell’intervista
Quanto contano le innovazioni nel campo delle luci?
Mi sono sempre interessato di tecnologia e ora, con il Politecnico di Milano, sto predisponendo dei sistemi totalmente innovativi che, grazie alla computer vision, riconoscono le forme dei dipinti e illuminano perfettamente il loro interno. Il prototipo è già funzionante e speriamo di riuscire a utilizzare il sistema entro la fine dell’anno. È una soluzione ideale per i piccoli musei e per le gallerie private, dove non è facile avere a disposizione un operatore specializzato nelle luci. Inoltre sto finalizzando un progetto di didascalie auto-illuminanti che risolveranno tanti dei problemi di leggibilità dei cartellini.
Quali progetti le sono rimasti nel cuore?
Nel 2023 mi sono occupato dell’esposizione a Melfi di due sarcofagi romani, uno dei quali è grandissimo e sul coperchio reca scolpita una fanciulla sdraiata, che non è molto visibile: ho quindi usato degli specchi e il risultato è stato molto emozionante. Un’altra mostra che mi ha dato molte soddisfazioni è stata quella su Bosch a palazzo Grimani a Venezia, perché nella sala non c’era illuminazione e ho dovuto far entrare la luce attraverso una finestra. Poi amo lavorare sui dipinti di Klimt, le cui figure hanno un incarnato incredibile.
Quali sono le opere più difficili da illuminare?
Quelle di grande formato, specie a olio e su fondo nero, perché sembrano quasi degli specchi. A volte arrivano addirittura all’altezza del binario dove si montano le luci, ed è molto complicato far sì che non si formino dei riflessi.
Ci può anticipare a quali nuovi progetti sta lavorando?
Nei prossimi mesi mi occuperò di Munch a Palazzo Reale di Milano, poi di Niki de Saint Phalle al Mudec, dove lavorerò anche sul progetto su Dubuffet e l’Art Brut. Poi, se tutto va come dovrebbe andare, dovrei rifare l’impianto illuminotecnico della Camera degli Sposi di Andrea Mantegna a Mantova, che è uno dei miei sogni nel cassetto.
Marta Santacatterina
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