La storia di Robert Indiana e delle sue opere nella più grande mostra realizzata in Italia
Si svolge a Venezia e racconta gli esordi dell’artista dal Midwest a New York, la creazione di un linguaggio inedito, l’amore e la morte, e un’opera che è diventata un marchio famoso in tutto il mondo
È una storia d’altri tempi, una storia americana, quella dell’artista Robert Clarck che dal Midwest si trasferisce a New York nel 1954, ha un incontro fortuito con Ellsworth Kelly, habitué di un negozio di articoli d’arte dove Clarck lavorava e cambia il proprio cognome in Indiana, in un atto d’amore nei confronti dello stato che gli aveva dato i natali.
La storia di Robert Indiana
L’epopea Made in USA di Robert Indiana (New Castle, 1928 – Vinalhaven, 2018) parte da qui ed è in mostra a Venezia alle Procuratie Vecchie nella più grande retrospettiva mai dedicata all’artista in Italia, realizzata in occasione della Biennale Arte. Le opere dell’artista sono qui rappresentate in un percorso cronologico e biografico che comincia dagli albori, da quelle prime esperienze a Coenties Slip nel Lower Manhattan, area marittima poi centro finanziario, recuperando residui delle attività portuali e utilizzandoli per creare il proprio universo. Indiana usa il linguaggio vernacolare americano, che si intreccia con motivi orientali o suggestioni dai nativi, fondendolo con elementi pittorici e scultorei, fino a creare un lessico tutto nuovo. È il caso, ad esempio, dell’opera The Sweet Mystery (1960 – 1962), che dà peraltro il nome alla mostra e che, come dice l’artista stesso, proviene da più elementi, anche personali. Ad esempio, il primo I Ching in cui si è imbattuto, lo Yin e Yang, una foglia della pianta orientale ginko (elemento ricorrente nelle prime opere), e così via.
La pop art di Robert Indiana
Questo nuovo linguaggio, queste suggestioni, si vanno a innestare sulle strutture e le macchine celibi offerte dalla storia dell’arte, in alcune composizioni degli Anni ’60 tornano alla mente le avanguardie storiche o le scatole piene di segreti di Joseph Cornell. Sono i simboli che pian piano si staccano dalle basi e cominciano a prendere vita propria fino a diventare un marchio. Ne è testimone il percorso costruito dal curatore Matthew Lyons e dal Yorkshire Sculpture Park, attraverso le quaranta opere che compongono l’esposizione che svelano il modo in cui le forme si emancipano dagli assemblaggi fino a perdere la funzione di segnale e diventare protagoniste. È il caso del noto binomio Eat/Die (1962) e di Love che ha reso Indiana famoso in tutto il mondo, con una varietà mostruosa di citazioni, contraffazioni, ispirazioni, sfondando le barriere del settore e diventando sinonimo dell’America di quegli anni. È una forma d’arte esistenziale quella dell’artista, che va a scavare nelle necessità primarie dell’essere umano. Racconta ad Arthur C. Carr, nel 1964, “La prima, la prima associazione, Arthur, e la più importante per quanto riguarda la pittura, è, ovviamente, il fatto che “Mangia” è stata l’ultima parola che mia madre ha detto prima di morire. E l’intera serie di dipinti del dittico “Eat/Die” è legata a quell’esperienza specifica. Poi, ovviamente, “Eat” va molto più indietro e riempie, diciamo, una larga parte della mia vita, perché tra i momenti più felici della mia infanzia e quelli più emozionanti ricordo queste grandi riunioni di famiglia dove mangiare era la cosa più importante”.
Robert Indiana: Love
È nel 1964, ma la mostra testimonia di alcuni versi vergati ancora nel Lower Manhattan nel 1957 in cui compare la parola Love, che Indiana comincia a ragionare sull’amore. Il 1964 è l’anno di Love is God dipinto a forma di diamante e commissionato dal collezionista Larry Aldrich e il cui messaggio è tratto dalle funzioni della Scienza Cristiana che l’artista ha frequentato da piccolo. Ancora le lettere non assumono la forma convenzionale che tutto il mondo conosce, con la O inclinata, che emerge tra il 1965/66. La mostra è testimonianza delle varie declinazioni scultoree che LOVE ha avuto nel mondo, fino a una versione in oro in italiano, AMOR, realizzata tra il 1998 e il 2001. Chiudono il cerchio The Electric American Dream (EAT/DIE/HUG/ERR), che prosegue la ricerca sulle opere elettriche di Indiana andando a includere EAT, creato per l’Esposizione Universale del 1964, The Electric EAT (1964–2007) e The Electric LOVE (1966) –2000) e l’opera Ash, una fusione in bronzo realizzata nel 2017 sull’opera originale in legno, creata nel 1985, a memoria e in onore delle persone decedute di HIV e in polemica con le istituzioni che tra gli Anni ’80 e gli Anni ’90 hanno ignorato, discriminato, abbandonato ed emarginato.
Santa Nastro
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