Tutti contro la bellezza, ma ha senso? La lezione (equivocata) dell’arte contemporanea
Se si parla di arte contemporanea guai a nominare la bellezza. Ma è un’idiosincrasia basata sul nulla. Di più, un tabù che qualifica come formalista chi ce l’ha
Una cosa in comune il calcio e l’arte contemporanea ce l’hanno: la sciatteria lessicale. Povero calcio, il livello attuale della sua narrazione è bassissimo. Si può ben parlare di deriva. Intanto, perché il ‘giuoco’ del calcio ha una lunga storia, anche più lunga di quella dell’arte contemporanea – stando all’attuale inquadramento temporale di quest’ultima. Poi, perché i calciofili non sono esattamente dei buzzurri.
Gli amanti del calcio e l’arte contemporanea
Tra di essi vi sono state personalità eccellenti, e non stiamo parlando solo di Albert Camus e Pier Paolo Pasolini, ma anche di addetti ai lavori considerati – a ragione – penne sublimi. Gianni Brera, ad esempio, è stato paragonato a Carlo Emilio Gadda per la sua prosa fantasmagorica. Insomma, andiamoci piano col dileggio, c’è una nobiltà del football e dei suoi adepti che andrebbe conosciuta e rispettata. Per questo lo scadimento del racconto che se ne fa oggi rattrista. Un esempio? L’uso smodato del termine ‘cattiveria’, sbagliato proprio semanticamente. Infatti va decrittato, nel senso che si dice cattiveria per significare altro, cioè grinta, o anche ferocia, concetti diversi dalla cattiveria, ovviamente, ma quasi mai tirati in ballo. Di più, ‘cattiveria’ è anche variamente declinato, fino al grottesco. È il caso dell’orrenda locuzione eufemistica ‘cattiveria agonistica’, che è la classica toppa peggiore del buco. Si provi ad ascoltare qualche telecronaca delle partite di calcio. Si vedrà che chi segue questo sport così popolare deve sorbirsi di continuo l’apologia della cattiveria, per quanto malintesa. Peraltro con danni enormi, sottili ma proprio per questo incalcolabili. Va’ infatti a spiegarlo a un bambino che l’assimilazione proprio non ci sta. Ecco, ai tempi di Brera questo non sarebbe accaduto. E non perché il secolo scorso sia stato meno ‘cattivo’ del nostro. Semplicemente, perché lo svarione lessicale non era così diffuso come adesso.
Il concetto di bellezza nell’arte contemporanea
Nell’arte contemporanea succede la stessa cosa con riferimento al concetto di bellezza, anche se in senso opposto. Di bellezza non si parla, o lo si fa con fastidio, almeno tra addetti ai lavori e appassionati d’arte contemporanea. La parola stessa è demonizzata, oggetto di stigma, infatti è pressoché bandita nella pubblicistica di settore. Ma anche qui, ciò avviene per un mix di sciatteria e conformismo, per un riflesso condizionato dietro al quale c’è solo fuffa. Infatti non succede mai che una persona intelligente e un minimo strutturata, se incalzata sull’argomento, dopo un paio di battute vezzosamente sprezzanti arrivi a parlare sul serio della bellezza come di un disvalore. Sarebbe costretta ad argomentazioni grossolane, da parvenu, per cui al minimo infittirsi della discussione alza le mani, ritratta. Ora, anche qui, si è vittime di un misunderstanding lessicale. Si inveisce contro la bellezza, ma in realtà si intende altro. S’intende l’avvenenza, che è la versione cosmetica del concetto di bellezza, il suo simulacro. E non c’è bisogno di scomodare Kant, per capire che se si impreca contro la bellezza vuol dire che la si sta confondendo con altro.
L’estetica senza etica
Basta scomodare Ulay. Il celebre performer, infatti, attaccando ‘l’estetica senza etica’, che definì ‘cosmetica’, intendeva dire proprio questo, che bellezza e avvenenza non sono la stessa cosa. D’altronde, se il bello fosse riducibile a concetti come il gradevole e il rassicurante, poveri noi, non potremmo giudicare come ‘belli’ i capolavori dell’ultimo Goya, o un film horror, o la musica di Edgard Varèse. Eppure, l’equivoco va forte. Al punto che ‘bello’ – per non parlare di ‘estetico’! – ormai sta per sciantoso, per solo avvenente. Alla faccia di Ulay, verrebbe da dire. Che non ce l’aveva con la bellezza, ma con la cosmesi! Esattamente un secolo fa, nel 1924, viene pubblicato il Manifesto Surrealista. In quel testo André Breton dà forse il meglio di sé in una frase lapidaria, cruciale per l’estetica del contemporaneo. Eccola: “La bellezza sarà convulsa o non sarà”. Netta, sottile: sembra un frammento di Eraclito. Come si vede, neanche il boss del surrealismo se la prende con la bellezza, nemmeno lui era così stupido. Al contrario, la invoca. Solo, esorta a esplorarne il carattere paradossale, a stanarla su presupposti non formalisti, a spostare cioè lo sguardo su un bello che non sia necessariamente – winckelmannianamente – sereno, olimpico e armonico.
Le opere d’arte e la bellezza
Ora, cos’altro ha fatto l’arte che chiamiamo contemporanea in tutti questi decenni, se non spingersi esattamente in quelladirezione? Soprattutto quella più ostica e sperimentale. Semmai bisognerebbe arrivare a dire questo, che il contemporaneo è un ininterrotto inno alla bellezza, e non il contrario. E lo è, appunto, per il fatto di aver disgiunto – radicalmente – bellezza e avvenenza, come mai era avvenuto nella storia. Sì, perché Marcel Duchamp è bellezza. Come lo è Ana Mendieta. Ed è bellezza – solo per fare un altro esempio – Emilio Prini, come si avuto modo di constatare visitando la recente retrospettiva del Macro di Roma. Se si nega questo si fa il più clamoroso degli autogol, per restare al paragone calcistico. Nel senso che si pensa di aderire alla weltanschauung del contemporaneo, invece la si tradisce, perché si dimostra di avere del bello un’idea formalista, di associarlo cioè al levigato e al patinato – all’apollineo direbbe Nietzsche. Anche qui, con danni incalcolabili. Il bambino di cui sopra penserà che è bella una foto di Helmut Newton, ma non un’opera di Ed Keinholz. Si dirà: ma l’arte contemporanea tratta delle idee, non delle forme, quindi non c’entra col bello. Ma anche questa è una banalizzazione fuorviante. ‘Idea’ viene da visione, quindi che un’idea venga giudicata bella o brutta ci sta eccome. Infatti anche di un lavoro iper-mentale si dice (sottovoce ma si dice) che è ‘bello’ quando funziona e incanta, e che è ‘brutto’ se è debole o non sta in piedi. Giustamente. Di recente l’ex presidente della Biennale veneziana Roberto Cicutto è stato attaccato proprio su questo punto, perché ha avuto la sfacciataggine di augurarsi una Biennale ‘bella’.
Arte e formalismo
Apriti cielo, sono subito partite frecce avvelenate. Ma anche qui, è il trionfo del malinteso. Perché nessuno si augura una kermesse d’arte brutta. A meno che, appunto, non si abbia una concezione cosmetica della bellezza. Solo – ed eccoci al punto – il fatto stesso che tale malinteso sia ancora tra noi sconcerta, lascia di stucco. Il pensiero va al già citato Nietzsche, la cui filosofia prende le mosse proprio da questa tematica. Voleva si modificasse lo sguardo nei confronti dell’antichità greca, affinché a questa venisse riconosciuta anche una ‘bellezza convulsa’, non avvenente, bretoniana – ‘dionisiaca’ diceva lui. È il cuore del suo ‘messaggio’, e un vero cambio di paradigma. L’estetica del contemporaneo gli deve molto; anche il mutamento di prospettiva impresso dal secolo scorso alla storia dell’arte ha a che fare con questo scatto, con risvolti importanti anche nel gusto. Infatti è stato il secolo scorso, riguardo l’arte del passato, a rivalutare, e talvolta idolatrare, artisti e periodi del passato il cui mood è da considerarsi all’opposto dell’avvenente. Basti pensare all’ultimo Tiziano, al Manierismo nel suo complesso, allo stesso Caravaggio. Il tutto a scapito di artisti più ‘apollinei’ – diciamolo: più avvenenti – come Raffaello, Tiepolo, Guido Reni. Eppure, ultimamente va così, si inveisce contro la bellezza. Quasi non ci si crede. Evidentemente la lezione impartita dall’arte contemporanea non ha ancora attecchito. Almeno, non in profondità. Il rischio, a forza di parlarne con boria denigratoria, o – peggio – di non parlarne affatto, è di lasciare una categoria complessa come la bellezza al campo avverso, quello dei formalisti. Quell’esercito enorme, eterno e sempre risorgente (purtroppo) formato appunto da chi confonde bellezza e avvenenza. Invece ci vorrebbe intransigenza, almeno quando si ha a che fare coi ‘fondamentali’ – come si chiamano in gergo calcistico i riferimenti non negoziabili. Tanto nello sport, dove il termine ‘cattiveria’ sarebbe da bandire – non perché immorale, ma perché improprio –, quanto nell’arte visiva, dove la parola ‘bellezza’ andrebbe sempre difesa. Soprattutto, per i motivi qui richiamati, quando si parla di arte contemporanea.
Pericle Guaglianone
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati