Il futuro è pericoloso. Lo dicono i nostri corpi (e l’arte lo conferma)
Come si è evoluto il rapporto tra arte, corpo e conformismo? La storia della performance è un punto di vista privilegiato per scoprirlo, ma anche per provare a pensare a come saremo domani
L’ultimo video che ritrae Edith Piaf mentre canta, girato nel 1963 poco prima che morisse a 47 anni, ci mostra una donna piccola con pochi capelli corti, caviglie gonfie, immobile nel suo abito nero qualsiasi. Questo corpo senza gloria, però, è quello che l’ha resa la diva più iconica del Novecento francese. Mostrare la propria debolezza in un modo tanto poco spettacolare è stato l’atto più anticonformista che potesse fare.
Oggi tanta semplicità sembra non essere più un modello per nessuno. Viviamo tra busti tatuati, piercing, capelli color pastello. Eppure, l’arte visiva si pronuncia per una semplicità differente da codici ormai massificati. È vero che ci vengono proposte rappresentazioni del corpo deformate o particolari: pensiamo alla pittura che ingigantisce gli aspetti sensuali del corpo soprattutto femminile, come i quadri di Lisa Yuskavage o di John Currin; pensiamo anche a una scultura che esalta aspetti rituali o fantascientifici: Precious Okoyomon crea sculture di terra che sono busti femminili attraversati da erbe rampicanti e vestite con colori dal sapore africano, rinnovando l’antico mito della Dea madre che trae appunto dalla terra, in un’unione indissolubile con la vegetazione, il suo stesso potere generativo; Andra Ursuta esibisce teste femminili di vetro dal cranio allungato, in un mood che congiunge il mondo fantasy a culti atavici che imponevano la deformazione delle membra; Simone Leigh veste le sue creature di bronzo con gonne di rafia dai volumi settecenteschi, dai visi coperti da di legnetti o addirittura senza occhi.
Sono passati gli anni della body art provocatoria
Anche in questi casi, però, è evidente che sono lontani gli anni in cui la corporeità doveva essere presentata in forma provocatoria, sovente da performance agite dall’artista medesimo, come negli Anni Sessanta e Settanta: a quel tempo gli artisti si ledevano i genitali (Rudolf Schwarzkogler, Aktion Sommer, 1965), li mostravano pubblicamente, protetti però dalla canna di un fucile puntato verso l’osservatore (Valie Export, Genitalpanik, 1969), si masturbavano sostanzialmente in pubblico (Vito Acconci, Seedbed, 1972), facevano uscire poesie da rotoli di carta conservati nella vagina (Carolee Schneeman, Interior Scroll, 1975). Si trattava allora di urlare ciò che in seguito ha incominciato a entrare nella coscienza collettiva. Marina Abramović non ha mai avuto bisogno di un livello di nudità tanto provocatorio, e infatti le sue performance maggiori sono successive alla metà degli Anni Settanta. La controprova di questo comportamento meno violento è data dalle evanescenti siluetas di Ana Mendieta (1973-76), ottenute col fuoco, con foglie, con fiori, sempre lasciando tracce della sua permanenza e misteriosa sparizione da un luogo. Dopo il raggiungimento in molti paesi occidentali di alcuni diritti quali il diritto di parola e di difesa per le donne, il divorzio, l’aborto, primi fondamentali passi verso una parità nei diritti dei generi, la lotta per dimostrare la presenza di un io che prescindesse da un’identità di genere e da valori morali preconcetti.
La robotizzazione del corpo
In seguito, l’esibizione diretta della corporeità, nell’ambito della performance, è diventata decisamente più pervasiva che al tempo di quei primi esperimenti, apparentemente anche più violenta ma meno estrema nella sostanza. Pensiamo ad alcune azioni dei tardi Anni Ottanta-primi Novanta: la protesi che Stelarc si fece applicare all’avambraccio in quanto terza mano (Stelarc, Third Hand, 1980-88) o l’esoscheletro pieno di elettrodi che Marcel Lì Antunez Roca si attaccò al cranio, affinché gli spettatori potessero comandarne il comportamento muscolare attraverso un mouse (Marcel Lì Antunez Roca, Epizoo, 1994), hanno un aspetto inquietante in quanto utilizzano macchine che robotizzano il corpo, ma non toccano più la zona del tabù genitale e non implicano pericoli di morte per il performer.
La performance si normalizza e si segmenta
Questa normalizzazione delle performance che riguardano la corporeità appare chiara negli Anni Duemila: si pensi ai ragazzi che saltavano cantando nel padiglione tedesco della Biennale veneziana del 2003 (Tino Sehgal, This Is So Contemporary, 2003) o alla qualità di danza che hanno assunto azioni come quelle di Alexandra Pirici, Cally Spooner, Christodoulos Panayiotou tra gli altri.
È come se, con un certo pudore, la spettacolarizzazione dei corpi diversi venisse lasciata a chi davvero ha una diversità da esibire, che non viene simulata ma è reale: è più forte vedere combattere Bebe Vio o altri sportivi paralimpici che osservare qualcuno che si mutila volontariamente. L’esibizione di un’anomalia fittizia viene considerata spesso come prendersi il territorio di un altro, cioè di chi l’anomalia l’ha davvero. Sul piano etico, molti hanno imparato a rispettare la reale problematicità esibita dall’orizzonte LGBTQI+, soprattutto quando ci si trova di fronte a scelte dolorose che quella della transizione di sesso. Silvia Calderoni non finge di essere un maschio, infatti, limitandosi a indossare la sua effettiva identità queer.
Il corpo contemporaneo e il suo conformismo
Al tempo in cui si rivendicava pubblicamente l’omosessualità per le prime volte, come fece Allen Ginsberg dai tardi Anni Quaranta, c’era bisogno di capelli lunghi, abiti hipster e poesie spacca-coscienze come Howl (1954/5). Questa necessità di essere visti e sentiti è cresciuta, ma oggi sembra essere diventata appannaggio solo di grandi masse di ragazzi che parlano con i loro tattoo estesi e l’esibizione delle protesi tecnologiche (per il momento sono solo cuffiette e telefoni cellulari, ma presto potrebbero diventare occhiali multifunzione, per esempio), con codici di abbigliamento appariscenti e probabilmente dalla forte capacità di includere o escludere dal proprio cerchio di simili, e con la volontà di marcare la differenza generazionale rispetto ai padri. Questi però sono comportamenti conformisti rispetto al nucleo sociale di riferimento e non li definirei un linguaggio corporeo sperimentale. Con il rispetto dovuto per le istanze della cultura giovanile, tendo a vedere nel modo esasperato in cui molti ragazzi manifestano la loro fisicità come una caratteristica dai tratti tribali, di riconoscimento o disconoscimento reciproco tra gruppi.
Corpi differenti. Corpi del futuro
Ciò che davvero colpisce, se di nuovo ci si rivolge al campo artistico, sono coloro che parlano di corporeità differenti attraverso la scultura, la pittura, la rappresentazione fotografica o anche utilizzando il corpo vivo. Ma quasi immobile, zitto, senza bisogno che nulla sottolinei la sua diversità. Che è palese e spesso molto pericolosa o costosa, come accade nelle condizioni di lontananza estrema rispetto alla norma. Corpi semplici, corpi quasi timidi, corpi che attendono un destino, i nostri stessi corpi inclusi all’interno di performance partecipative, dove non ci è richiesta alcuna azione eclatante per diventare parte del gioco. Sappiamo che ci aspetta un’epoca postumana (Braidotti) o superumana (Bostrom) e le aspettiamo con ansia e attaccamento alla normalità che ci resta. Siamo persone che camminano dentro una grande installazione buia e fantascientifica di Pierre Huyghe, siamo osservatori curiosi dei voli degli impollinatori sopra un giardino di Alexandra Daisy Ginsberg, siamo persone che cercano la via in un labirinto tecnologico di Hito Steyerl. Siamo turbati ma cerchiamo di apparire conformi alla norma. Ora possiamo capire la cerea, voluta, espressiva semplicità di Edith Piaf. Ciò che era, il suo dramma, il suo talento, la sua mancanza di conformità le si leggevano addosso immediatamente, come nei nostri visi si legge il pericolo del futuro.
Angela Vettese
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