Tra paradosso dell’assenza e mistero dell’immagine. Intervista all’artista Giuseppe Di Liberto in mostra a Milano

La morte come fenomeno culturale e antropologico è al centro della ricerca del giovane artista Giuseppe Di Liberto. Ce lo racconta in questa intervista, in occasione della sua prima mostra personale nella sede milanese della Galleria Poggiali

Si intitola Così tentammo di aspettare la fine l’ultima mostra in programma da Galleria Poggiali a Milano (ancora visibile fino al 13 settembre 2024) con le opere di Giuseppe Di Liberto (Palermo, 1996) che, nell’ultimo anno, dopo aver partecipato a due importanti collettive – Sacro è (2024) alla Fondazione Merz di Torino e Dopodomani (2023) alla Quadriennale di Roma – presenta la sua prima esposizione personale. L’occasione è stata data dal periodo di residenza a Sète, in Francia, promosso dal Ministero della Cultura italiana in collaborazione con l’Ecole des Beaux-Arts e CRAC (Centre régional d’art contemporain Occitanie/Pyrénées-Méditerranée). Tra sculture, tele, installazioni e performance (tutte inedite) l’artista esplora il paradosso dell’assenza e il mistero dell’immagine come simulacro, approfondendo con particolare attenzione i contesti socio-antropologici legati alla morte nella cultura mediterranea. “La mostra esplora l’interesse dell’artista per due filoni tematici. Da un lato il ruolo dell’ex voto, una preghiera di buon auspicio che prende la forma di oggetto e, talvolta, anche di pittura, dall’altro il tema dell’apocalisse, filo conduttore delle sue più recenti opere”, spiega Giorgia Aprosio di Galleria Poggiali.  

Giuseppe Di Liberto in mostra da Galleria Poggiali a Milano 

La mostra ruota attorno agli elementi trovati da Giuseppe Di Liberto sulle tombe dei pescatori del Cimetière marin di Sète, a cui il poeta Paul Valéry dedicò alcune poesie e dove ora è sepolto. Tra questi, pitture vernacolari realizzate con la funzione di ex voto per salvarsi da eventuali imprevisti durante la navigazione. Da qui l’artista inizia ad approfondire il tema della fine in chiave storico-antropologica con una particolare attenzione alle tradizioni locali (non solo di Sète ma anche della sua Palermo) riconoscendone l’attualità in un contesto d’emergenza. Abbiamo avuto modo di conoscere e approfondire la ricerca dell’artista – prima del talk di chiusura della mostra, che vedrà la partecipazione, oltre a Di Liberto, di Nicolas Ballario, Arnold Braho e Miriam Rejas Del Pino giovedì 12 settembre alle ore 18.30 in Foro Bonaparte 52 – in una conversazione che è iniziata a ritroso, dai progetti futuri alle ragioni (e le suggestioni) che lo hanno portato a raccontare la fine. 

L’intervista a Giuseppe Di Liberto 

A cosa stai lavorando? Quali sono i prossimi progetti? 
Prossimamente prenderò parte a una collettiva presentata da Galleria Mazzoli a Modena e curata da Lorenzo Madaro. Ci è stato dato l’input di riflettere sull’archivio della galleria e io, approfittando anche della storia della città, vorrei trattare del ritrovamento nel 2009 di due scheletri probabilmente risalenti al quinto/settimo secolo d.C. Questi due corpi furono trovati mano nella mano tanto che inizialmente si pensò fossero due amanti ma dopo anni si comprese, invece, di essere dello stesso sesso. E questo grazie a un esame dello smalto dei denti. L’accaduto mi interessa molto, da tempo ho iniziato a riflettere sui denti come elemento identitario. In fondo, sono l’unica cosa che rimane una volta che il corpo si decompone oltre alle unghie.  

Come nell’opera in mostra Il quarto cavaliere. 
Sì, esatto. Ho dipinto una prima dentatura nel 2019 quando sono arrivato a Venezia, poi ho iniziato a fare dei calchi di denti, in quanto li vedo come una sorta di copia della realtà, una fotografia.  
L’arte del calco, inoltre, appartiene anche ai riti funebri. Mi affascina questa durabilità del corpo, le ossa se le metti in una fossa comune diventano interscambiabili, mentre i denti sono elementi di “resistenza”. È come un elemento che si allontana a livello iconografico dell’effige.  

Come hai iniziato, e poi portato avanti, questa tua ricerca legata alla fine? 

Credo di aver sempre avuto in sottofondo la riflessione sulla fine ma me ne sono reso conto solo poi, dopo l’accademia. Forse appartiene al Sud Italia, da dove vengo. Qui la morte non è un tabù e spesso è anche collegata alla superstizione, è come se fosse un’altra cultura. Durante i miei studi ho fatto una tesi sulle nuove modalità del rito contemporaneo nel Sud Italia, soprattutto nell’area siculo-partenopea, tra Palermo, Catania e Napoli, dove ci sono dei rituali comuni. Tuttavia, ho sempre cercato di trattare il tema nel modo più oggettivo possibile, approfondendolo dal punto di vista antropologico. Anche se nella mostra da Galleria Poggiali parlo di apocalisse, quella che io vado a restituire con le mie opere è una fine corporale. Lo spazio espositivo che, per esempio, in questo caso sono andato ad abitare è insieme confidente e respingente, ho creato una situazione in cui la luce, a seconda del taglio e dell’opera su cui si posa, crea a sua volta delle suggestioni e ambienti di riflessione. Anche il suono è protagonista qui, un tappeto sonoro realizzato dal sound artist Federico Pipia accompagna, infatti, i visitatori in mostra. È un suono distorto, un presagio di una fine all’orizzonte. Il risultato è un’atmosfera grottesca, in fondo i miei maestri spirituali sono Franco Maresco e Daniele Ciprì, insieme a tutta quella scena cinematografica palermitana.  

E come la residenza a Sète ha arricchito tutto questo? 
La residenza è stata teatro di tutta una serie di incredibili coincidenze. Qui ho approfondito la questione dei riti marini e degli ex-voto di produzione amatoriale. Una cosa che mi ha colpito è stata la freddezza con cui questi uomini realizzavano (tra fine Ottocento e inizio Novecento) figure per gli ex-voto, che ho potuto ammirare, per esempio, sui muri di una cappella dedicata alla Madonna. Volti pacati, quasi rassegnati, che mi hanno fatto ricollegare all’apocalisse. Ma la cosa più affascinante è stata che la mia stanza dava proprio sul cimitero marino di Sète. 

Caterina Angelucci  

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Caterina Angelucci

Caterina Angelucci

Caterina Angelucci (Urbino, 1995). Laureata in Lettere Moderne con specializzazione magistrale in Archeologia e Storia dell’arte presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Dal 2018 al 2023 si è occupata per ArtsLife di contenuti e approfondimenti per la sezione…

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