Tutte le sperimentazioni culturali al Macro col Festival Sonata: intervista ai curatori
Si svolge al Macro di Roma tra arte, musica, video e laboratori. E molti ospiti. I curatori raccontano il progetto in questa intervista
Suoni, video, performance e parole e vari linguaggi artistici: Matteo Binci e Vasco Forconi raccontano il festival Sonata, in corso a Roma fino al 22 settembre. Tra musica, arte, workshop e talk gli spazi del Museo Macro si aprono alla scena sperimentale della Capitale.
Intervista ai curatori del festival Sonata al Macro di Roma
Qual è stato il processo dietro la decisione di unire queste forme d’arte in un unico contesto come il Macro? In che modo pensate che questa intersezione tra discipline riesca a creare nuove forme di dialogo?
L’interdisciplinarietà è una costante nella programmazione del Macro degli ultimi anni. Il festival Sonata in particolare cerca di configurarsi come una possibilità per il museo di riflettere su sé stesso, sui suoi spazi, le sue temporalità e i suoi linguaggi al di là della produzione di mostre. Che cosa è in grado di immaginare un museo (oggi, in Italia) in parallelo e oltre la programmazione espositiva? Per questo abbiamo lavorato sugli spazi secondari, meno utilizzati durante l’anno (foyer, auditorium, sala cinema, terrazza, galleria vetrata) che possono essere attraversati liberamente e che architettonicamente si prestano ad accogliere ampie comunità temporanee.
Come?
Il Macro è anche un’infrastruttura urbana che può essere attraversata e abitata nel corso dell’intera giornata. Consideriamo parola, immagine in movimento, corpo e suono tra i linguaggi primari dell’espressione di Roma, una sorta di linfa che ne attraversa ininterrottamente i giorni e le notti. Le manifestazioni di questi linguaggi spesso nascono e si alimentano in realtà laterali, effimere e indipendenti, che stanno ricevendo sempre più attenzione da parte di alcune istituzioni culturali, ma che rischiano di essere vampirizzate per riempire carenze nella programmazione perdendo quindi la loro dimensione di auto-rappresentanza. Anche da questo nasce la volontà di mettere linguaggi così diversi al centro della programmazione del festival e in dialogo tra loro.
Il programma include artisti locali come Akïi, Casilina e altri legati alla scena musicale sperimentale romana, come pensate che il festival possa dialogare con il panorama culturale di Roma? In che modo il festival valorizza le specificità artistiche della città e contribuisce a espandere le sue narrazioni creative, sia a livello locale che internazionale?
Settembre a Roma è il mese dei festival, pensiamo a Romaeuropa, alla densissima programmazione di Short Theatre, agli eventi delle accademie internazionali. Ci inseriamo in questo contesto con due caratteristiche e desideri: raggiungere un pubblico giovane – che non sempre frequenta il museo – offrendogli uno spazio gratuito e abitabile, rivelando una dimensione inaspettata dell’istituzione che può presentarsi anche come un luogo di celebrazione e gioia collettiva. Nonostante il festival sia alla prima edizione, ogni fine settimana il museo è attraversato da migliaia di visitatori.
Spiegateci meglio…
La programmazione di Sonata non vuole creare una mappatura o un discorso sistematico su Roma, ma presenta la ricerca di generazioni diverse, con una particolare attenzione verso le artiste e gli artisti più giovani. Per alcuni di loro si è trattato della prima esperienza istituzionale, e siamo felici di aver costruito insieme un pubblico ampio che si è aggiunto a quello, tanto locale quanto internazionale, che abitualmente frequenta il museo. La pluralità dei linguaggi ci ha permesso di entrare in dialogo con pubblici eterogenei, per età e provenienza, che quotidianamente stanno riformulando la dimensione e la percezione emotiva dello spazio museale. La scala del festival favorisce infine uno scambio e un confronto individuale e diretto con gli ospiti, attivando un rapporto di cura da parte di tutto il team che lavora collettivamente al progetto.
Il programma del festival riflette un forte legame con la città di Roma, non solo nella selezione degli artisti locali, ma anche nell’attenzione verso specifiche comunità e narrazioni cittadine. In che modo la città ha influenzato il contenuto e la struttura del festival? Avete scelto di esplorare storie o tematiche specifiche di Roma che si collegano a questioni sociali o culturali più ampie?
Con la programmazione delle domeniche, incentrata principalmente sul dialogo sotto forma di assemblee, workshop e talk, abbiamo cercato di amplificare voci provenienti da alcune aree dell’attivismo romano, affrontando tematiche che si collocano all’intersezione tra arte, cultura e diritti sociali. Abbiamo avviato un dialogo con diverse figure di coordinamento, personalità e gruppi che da tempo lavorano fra il dentro e il fuori delle istituzioni, e con i quali abbiamo potuto estendere l’invito a soggettività eterogenee. Con Christian Raimo, insieme a Giulia Addazi, Cristiano Corsini, Rahma Nur, Claudia Ricci, Pietro Savastio, Elena Zizioli abbiamo organizzato un’assemblea pubblica nella quale si è discusso di scuola, pedagogia e cultura; con Diletta Bellotti, Nitx, Fallon Mayanja e Aldana/Karaoke No Fomo Only Homo, abbiamo cercato di ospitare dentro il museo uno spazio dialogico per le soggettività queer, trans e non-binarie di Roma; nell’ultima domenica del festival, con il collettivo BHMF, the Recovery Plan, Justin Randolph Thompson e Janine Dieudji, e insieme ad altri ospiti, discuteremo della Roma post coloniale. Ciascuna di queste giornate si conclude con una sessione musicale sulla terrazza, un’occasione per affrontare la celebrazione anche attraverso il corpo.
Il progetto di Supervoid, “Rapsodia”, utilizza materiali provenienti da precedenti mostre del MACRO per creare installazioni temporanee. In che modo queste scenografie contribuiscono a ridefinire lo spazio museale durante il festival?
Abbiamo invitato lo studio di architettura Supervoid a disegnare una serie di palchi, scenografie e dispositivi temporanei che potessero accogliere la programmazione del festival e segnalarne la presenza all’interno del museo, trasformando luoghi di passaggio in ambienti accoglienti, il tutto riutilizzando materiali di mostre precedenti. È nato così Rapsodia, un progetto che segue una precisa regola di assemblaggio: nessun elemento è usato per ricomporre l’oggetto originario, ma ogni installazione è concepita impiegando almeno due materiali provenienti da mostre diverse. Gli elementi riemergono in una sorta di collage tridimensionale, che gioca con la potenzialità dei materiali di essere riconfigurati: moquette che diventano fondali, pannelli di strutture espositive trasformati in un lungo paravento, grigliati metallici che diventano quinte sceniche. Ciascuno di questi dispositivi conserva le tracce degli autori che li hanno realizzati, sottolineando il carattere collettivo del progetto museografico.
Arnold Braho
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