Chiude lo spazio Base / progetti per l’arte a Firenze. Storia di un progetto che diventa itinerante
Nato nel 1998 con uno spazio in Via San Niccolò a Firenze, Base ha chiuso i battenti dopo 26 anni. Abbiamo raccontato qui in questa intervista la storia e i progetti del collettivo, che nel frattempo continua a lavorare con un programma itinerante
Era la fine degli Anni ’90 e in una Firenze molto diversa dalla città nasceva Base, spazio non profit per l’arte contemporanea in quella via San Niccolò che a pochi passi ospita anche la Casa del Popolo, la Galleria e Scuola di arte grafica Il Bisonte e camminando per circa 10 minuti la Libreria Brac. Due stanze, una parte di archivio, uno spazio articolato visibile su strada dove per 26 anni ha operato “un gruppo di artisti che volevano dare voce ad una esigenza collettiva, ma che soprattutto hanno scelto di rispondervi in maniera pratica e diretta invitando altri artisti che con la loro mostra portavano domande e risposte attorno al cambiamento dell’arte e della società di allora”. Lo scorso 26 settembre 2024, con una grande festa e tanta solidarietà, Base ha chiuso definitivamente lo spazio, ma non ha cessato di fare progetti diventando itinerante. Ne abbiamo parlato con il collettivo di Base / progetti per l’arte (Mario Airò, Marco Bagnoli, Massimo Bartolini, Vittorio Cavallini, Yuki Ichihashi, Paolo Masi, Massimo Nannucci, Maurizio Nannucci, Paolo Parisi, Remo Salvadori, Enrico Vezzi più il critico e curatore Lorenzo Bruni, unico “non artista” della compagine).
26 anni fa nasceva BASE. Come è nata questa avventura?
Nel 1998, quando alcuni artisti di differenti generazioni che vivono in Toscana, si sono trovati a dialogare tra loro rendendosi conto che a Firenze mancava uno spazio fisico, non votato soltanto alla conservazione del passato, dove incontrarsi. L’esigenza era quella di creare un ponte con quello che accadeva nel contemporaneo a livello internazionale proprio nel momento in cui in città stavano chiudendo diverse librerie e spazi d’arte. In controtendenza invece, nella Via di San Niccolò, un anno prima, aveva aperto la City Lights Bookstore, che era la casa editrice californiana della beat generation, fondata da Lawrence Ferlinghetti, John Giorno, Laurie Anderson, Patti Smith e altri, che stavano producendo concerti, mostre e performance e frequentavano la libreria, ci segnalarono che lo spazio di fronte a loro si stava liberando.
Chi sono stati i protagonisti di questa esperienza?
Gli artisti del collettivo attuale (Mario Airò, Marco Bagnoli, Massimo Bartolini, Vittorio Cavallini, Yuki Ichihashi, Paolo Masi, Massimo Nannucci, Maurizio Nannucci, Paolo Parisi, Remo Salvadori, Enrico Vezzi più il critico e curatore Lorenzo Bruni), ma anche tutti quegli artisti anche hanno preso parte al collettivo anche se solo per un breve periodo. Infatti, oltre a Maurizio e Massimo Nannucci, Masi e Parisi tra i fondatori sono da citare Carlo Guaita e Antonio Catelani. Poi si aggiungono nel tempo Daniela De Lorenzo, Vittorio Corsini, Fabio Cresci, Addo Trinci, Robert Pettena, Yuki Ichihasci, Carlo Fei, Pedro Riz a Porta, Bobo Marescalchi, Carlo Cantini che poi sono usciti per dedicarsi ad altri impegni. Si sono uniti al primo nucleo del collettivo da subito Marco Bagnoli e poi Remo Salvadori che dopo aver aderito al progetto con una mostra hanno voluto continuare a dare il loro contributo in altro modo, scelta che dopo qualche anno hanno assunto anche Massimo Bartolini e Mario Airò. Fino ad arrivare al 2009, quando si sono aggiunti Enrico Vezzi e Vittorio Cavallini. Inoltre Lorenzo Bruni, curatore e critico, fin dal 1999 mentre era studente e lavorava a Tuscia Electa, ha partecipato alle progettualità di Base, adattandosi alla necessità dello spazio di fare un passo indietro in quanto autore e curatore, per dare importanza al dibattito e alle scelte del collettivo. I protagonisti di Base però non sono solo gli artisti del collettivo, ma anche tutti gli artisti che hanno scelto di partecipare al progetto, scegliendo di realizzarvi una mostra per poter partecipare in maniera attiva ad una comunità.
Quanti artisti hanno esposto in tutti questi anni a BASE? In questi oltre 25 anni, sono state realizzate a Base più di 120 mostre ed eventi che sono stati tutti pensati in maniera site-specific. Ogni mostra, infatti, ha rivelato un particolare inatteso dello spazio che al primo sguardo poteva apparire monolitico o una tipica white cube. Invece, mostre come quella di Jiří Kovanda con un modellino di una barca posto a testa in giù sul soffitto, hanno fatto emergere che la sequenza di piccoli archi potevano rimandare all’immagine di un mare con le sue onde. Allo stesso modo l’intervento di Christiane Löhr con una serie di semi di piante di campo esposte sul soffitto che formavano una forma conica che andava a dialogare perfettamente con quella a botte del soffitto. Si tratta ovvero di interventi che si basano sul trovare il giusto segno per il giusto contesto con cui amplificarsi a vicenda. È quello che è accaduto anche con le mostre di Gervald Rockenshaub o di Pedro Cabrita Reis – nel primo caso una parete di legno dipinta di rosa e nel secondo una longarina di ferro – che permettevano di connettere in maniera inedita le due stanze di Base, rivelando anche che i due pavimenti avevano due altezze diverse creando un piccolo dislivello con scalino.
Altre mostre?
Quella di Jeppe Hein (una struttura di metallo che alternava il flusso di acqua a quello di fuoco), o di Antonio Mutadas (una pellicola rossa applicata sulla vetrina che permetteva di guardare all’interno di Base attraverso il vuoto delle lettere che recitavano lo statment di: “attenzione: la percezione richiede partecipazione”) ma anche di Peter Kogler (due filtri colorati applicati al vetro che dall’esterno annullavano i disegni distribuiti su tutto il pavimento) o di Roman Ondak (uno specchio retrovisore applicato al vetro mentre il bandone e il numero civico erano posti sulla parte di fondo), ma anche di Liliana Moro (una casetta per bambini associata ad una stanza dipinta di rosso, con un audio diffuso in strada di rumori che caratterizzano una casa e il ticchettio del lavoro ad una macchina da scrivere) che la visione della mostra da fuori e dal suo interno erano due esperienze differenti anche se apparentemente simili. Così come gli interventi di Jonathan Monk (un lungo pantalone appeso all’arco centrale con un calco del piede dell’artista dipinto con lo smalto rosso usato dalla madre) o di Maurizio Mochetti (un’asta in fibra di carbonio che fluttuava nel vuoto appesa all’arco) evidenziavano l’elemento architettonico dell’arco posizionato a 2/3 dello spazio, dandogli una dimensione preziosa. A parte questi esempi, però, possiamo dire che tutte le mostre da Lawrence Weiner a Jose Dávila da Karin Sander a Ryan Gander erano tutte legate al prendere atto della scansione dello spazio fisico di quel luogo specifico. Allo stesso tempo però la relazione delle opere con lo spazio fisico in cui andavano a inserirsi era il mezzo e non il fine per alzare il livello di attenzione da parte dello spettatore nei confronti del ruolo dell’arte nell’attuale società che era in rapido cambiamento.
Come è cambiato lo scenario dell’arte contemporanea dal 1998 ad oggi? Pensi che fosse più facile allora proporre questo tipo di progetti rispetto ad oggi?
Quando è stata aperta Base alla fine degli Anni ’90, eravamo nel pieno della globalizzazione e della diffusione di internet. Questo potrebbe portarci a pensare che i contatti internazionali con internet fossero più facili ed è vero. Infatti oggi ci ritroviamo in un sistema finalmente inclusivo e post-coloniale. Allo stesso tempo però era aumentato il numero di mostre a cui erano chiamati a rispondere gli artisti e per questo era necessaria una maggiore selezione. Scegliere di fare una mostra a Base permetteva all’artista di mettersi al riparo dalle pressioni e logiche che incontrava con i musei – con la necessità di realizzare eventi spettacolari per accogliere più numeri – o con le gallerie che invece dovevano confrontarsi con il sistema del mercato dell’arte. Il mondo, nel frattempo, è diventato sempre più digitale e iper-connesso, mentre invece la voglia di Base di creare uno spazio orizzontale per una esperienza diretta sul ruolo dell’arte è rimasta invariata.
Ci sono dei progetti che ricordi in particolare?
Rirkrit Tiravanija che nel 2004 realizza il progetto dal titolo “Qualsiasi TV” in cui trasforma lo spazio di Base in una vera e propria emittente televisiva e in un luogo di produzione di programmi TV trasmessi, nel raggio di un chilometro, da un’antenna sul tetto. Oltre a condividere le opere video e documentari di artisti e teorici che arrivano da tutto il mondo, venivano anche trasmessi a orari specifici il materiale portato dalle signore del quartiere e che erano per lo più i viaggi dei nipoti e parenti che non potevano vedere a casa perché non avevano il registratore delle videocassette. Oppure possiamo anche citare il lavoro di Christian Jankowski che nel 2015 realizza un progetto con un neon con scritto “no profit”, proponendo così il rifiuto di questa pratica. Allo stesso tempo nell’altra stanza c’era una mappa di Firenze in cui erano evidenziati non i musei storici, bensì delle trattorie in cui il pubblico poteva vedere le sue opere fotografiche inserite in quel contesto. Pierre Bismuth nel 2009 affronta in un modo differente l’idea di collaborazione, invitando le persone del collettivo e dei frequentatori di Base e della Casa del Popolo, ma anche gli abitanti del quartiere di san Niccolò a partecipare alla costruzione della sua mostra, invitandoli a portare “oggetti che avrebbero dovuto cambiare la tua vita”.
Molte opere sono frutto di una collaborazione…
Pensiamo ad esempio anche al caso della mostra del 2005 di Elisabetta Benassi dal titolo “Abandoned in place”, in cui l’archivio di opere fotografiche rielaborate dall’artista venivano rimosse dal pubblico presente in quel momento, una al giorno, fino ad arrivare con lo spazio vuoto il giorno della chiusura o anche alla seconda mostra (nel 1999) in cui Marco Bagnoli, con il suo progetto dal titolo “Vortice astratto Nell’occhio di Cézanne”, installava le sue opere in dialogo con il wall painting rosso di Sol Lewitt (dopo un proficuo scambio di opinioni sull’arte da parte dei due artisti) con cui era stato inaugurato pochi mesi prima lo spazio non profit.
Ad un certo punto però siete stati costretti a chiudere. Perché?
La proprietà ha cambiato improvvisamente le sue priorità rispetto alla destinazione dello spazio. Non c’erano più per noi le condizioni per restare.
Nonostante il brutto momento della chiusura per il vostro evento del 26 settembre siete stati circondati di affetto…
Il collettivo ha deciso di non lasciare lo spazio in silenzio e di reagire con un evento abitando con interventi diversi lo spazio e manifestando cosi che Base non è il contenitore, bensì il collettivo e le relazioni che si creano a partire da esso. È stato molto importante in quell’occasione per noi ricevere il sostegno anche dal pubblico locale, dei cittadini, che spesso dimentica quello che pensa di avere sempre a disposizione sotto casa. Le istituzioni nella forma della Regione, Provincia e Comune ci hanno sempre sostenuto negli ultimi anni e si stanno adoperando per trovare soluzioni condivise. Confidiamo in questa sinergia e che questo momento di entusiasmo non si dissolva.
Cosa farete ora? La chiusura è definitiva o state ancora lavorando?
Stiamo lavorando sui progetti già previsti per la stagione 2024-2025. Ad esempio, a fine ottobre era in programma la mostra di Jason Dodge (la mostra inaugura il 27 ottobre, in vari spazi del quartiere San Niccolò, ndr) che ha deciso di realizzarla lo stesso, ma in forma diffusa all’interno del quartiere di San Niccolò. Come punto di ritrovo ha individuato la Casa del Popolo di San Niccolò dove sarà possibile trovare il comunicato stampa e tutte le informazioni sul progetto. Il suo progetto travalicherà anche i perimetri cittadini visto che si estenderà anche a Torino.
Base esisterà senza il suo spazio?
Si. Base non è mai stata soltanto le mostre nello spazio fisico, ma tante attività, tra cui il dialogo con altri non profit space, le interviste da diffondere attraverso Youtube, le edizioni e manifesti, i progetti in altre sedi. Con gli artisti con cui stavamo lavorando alle prossime mostre stiamo cercando dei posti in città, che non necessariamente abbiano a che fare con l’arte contemporanea, e che possano dialogare con l’idea che vuole proporre l’artista che già aveva in programma la mostra, ovvero Stephen Willats, Mai-Thu Perret, Dara Birnbaum, Simon Fujiwara, Rosa Barba, Gabriel Kuri, Saadane Afif, Ulla von Brandenburg, Cerith Wyn Evans ed altri.
Come procederete?
Per adesso – in accordo con gli artisti – stiamo ragionando sull’uso di una cappella rinascimentale, una vetrina di un albergo, un cinema, una casa privata, ma stiamo vagliando altri spazi e siamo aperti a qualsiasi proposta di spazio disponibile. L’opzione di lavorare in città permetterà agli artisti di pensare ad un progetto speciale in relazione a uno spazio altrettanto particolare facendo emergere una dimensione sinergica con i luoghi inaspettata precedentemente. Infatti, il tempo del white cube è finito perché ha esaurito il suo ruolo. Possiamo dire che per la prossima stagione espositiva Base lavorerà su una dimensione di temporary space.
Se ci fosse una controproposta per ospitare Base in maniera continuativa, continuereste a lavorare su questo progetto?
Base dal 1998 continua ad essere ancora un progetto in progress. Non escludiamo per il futuro l’idea di lavorare su una dimensione nomade all’interno della città con progetti specifici e pensati per l’occasione, parallelamente allo svolgere le attività in uno spazio fisico fisso, in modo da fornire maggiore continuità, con incontri e varie attività, all’allargamento del dibattito in senso democratico e propositivo.
Santa Nastro
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