Pittura, fragilità e riflessione. Parola all’artista Maria Morganti in mostra a Torino
Una pittura maturata in oltre quarant’anni quella di Maria Morganti, protagonista del nuovo appuntamento di Dialoghi di Estetica e di una mostra antologica alla GAM di Torino. L’abbiamo intervistata
Maria Morganti (Milano, 1965) è un’artista che ha messo al centro della propria pratica artistica l’esperienza del colore inteso come materia e traccia dell’esistenza. Formatasi tra Milano e New York, Morganti sviluppa la sua pratica pittorica sottoponendola a ricorrente interrogazione. Le sue opere sono sedimentazioni di tempo che portano in sé il senso di una trasformazione continua. Ciò che si genera quotidianamente nel suo studio viene conservato attraverso un complesso sistema di archiviazione e successivamente messo in relazione con altre realtà nel tentativo di innescare un contatto tra l’interiorità e lo spazio esterno, condiviso. Ha esposto in diverse sedi in Italia e all’estero, tra le quali: Grand Palais (Parigi, 1993); Kunstverein (Ludwisburg, 2006); Barbara Behan Gallery (Londra, 2006); Fondazione Querini Stampalia (Venezia, 2008); Florence Lynch Gallery (New York, 2008); MAMbo (Bologna, 2013); Otto Zoo (Milano, 2015); Surplace (Varese, 2018); Galleria de’ Foscherari (Bologna, 2024). Fino al 16 marzo 2025 è in corso la sua mostra antologica che espone opere dal 1988 al 2024, curata da Elena Volpato presso la GAM di Torino. Questo dialogo propone un approfondimento di alcuni dei principali temi che Morganti affronta con la sua pratica pittorica: il rapporto con la riflessione teorica, il primato dell’esperienza, la centralità del colore, l’interesse secondario per la forma, le reazioni e la fragilità della pittura.
Intervista a Maria Morganti
Ad alimentare la tua pratica è l’avvicendarsi di una proficua sintesi tra la pittura e la dissertazione che svolgi su di essa. Da dove trae origine questo tuo modo di procedere?
Credo che tutto abbia origine nella formazione del gesto pittorico. Un momento particolare nel quale affrontando più quesiti su quello che si fa, si forma anche un discorso seguendo un andamento oscillatorio e continuativo. Si passa in continuazione da un lasciare che la materia si formi emergendo attraverso il fare a un prendere le distanze e guardare questa sua formazione. Perciò, l’atto di fare l’opera e il rimuginare intorno ad esso coesistono.
Che rapporto hai con la forma?
Spesso ci immaginiamo il pittore quasi come un artigiano, qualcuno che è coinvolto nell’impresa della definizione di una forma. Ecco, proprio quest’ultima per me è qualcosa che invece non è pensabile, perché la intendo piuttosto come la conseguenza di un processo, l’esito di un vissuto che si nutre di ricorrenti movimenti e relazioni, che si tiene in vita attraverso un’alternanza tra il fare e il guardare, tra il lasciare che la cosa si compia e il prenderne atto attraverso la visione.
Dunque, quel che vi è di naturalmente difficile nella condizione vitale alimenta ma non vincola la tua pratica artistica.
No, o almeno ci provo perché vada così. In fondo per me si tratta sostanzialmente di un lavoro di sottrazione, di poter procedere ma andando all’indietro. Nella storia della mia pittura sono passata dalla complicazione del gesto a quello che è stato un riempimento del colore nello spazio, per arrivare poi a qualcosa che penso si possa intendere come una ‘pre-esistenza’ dell’opera. Il lavoro grosso di questi venti anni è stato proprio quello di asciugare, arrivare a una semplificazione delle cose.
La pratica pittorica di Maria Morganti
Quale pensi sia l’aspetto più importante di questo approccio?
Spesso all’inizio si lavora riempiendo e poi arriva un momento in cui è necessario trovare una sintesi. Per me la chiave di volta è ammettere che si può anche procedere per via di svuotamenti. Vale a dire, lasciare che si palesi la necessità di tornare a un punto di origine nel quale stare, essendo quello il punto in cui le cose possono esattamente stare ed essere come sono.
È così che, a mio modo di vedere, con la tua pittura metti in crisi il rapporto tra pensiero e azione. Ma tale esito per te non è sufficiente, perché parallelamente intervieni anche su quello tra immagine e arte.
È una questione cruciale questa che hai colto, che si basa sul mio non interesse per la forma o meglio sul pensarla come effetto di un processo. Di conseguenza mi concentro sull’azione, sulla possibilità stessa di stare dentro all’atto che compio. Il mio lavoro è basato perciò su una contraddizione che lo abita: nelle mie opere si possono vedere più riferimenti (pittura astratta, analitica, monocromia) ma allo stesso tempo la negazione di ciascuno di essi. La forma contraddice quello che potrebbe essere il senso del mio discorso, se non fosse per quel centimetro di sedimentazione che rivela la storia del quadro. Esso dice che è più importante il processo rispetto all’ultimo strato di pittura stesa.
Allo stesso tempo, mi sembra si possa anche riconoscere il ruolo che hanno le reazioni nella tua poetica: ossia, il lato evidentemente umano del tuo lavoro, la tua ricorrente e meticolosa scansione delle dinamiche operative svolta nel corso della giornata che risente di una sorta di frizione, tra te e quello che c’è intorno a te. È per questo che c’è quel continuo reagire che alimenta le tue attività.
Hai descritto molto bene una parte decisiva del mio lavoro. Perché, la routine, la reiterazione, insomma tutto quel lavoro in solitudine per me è sostanzialmente un allenamento all’ascolto. Modi diversi per imparare a percepire micro-movimenti, micro-differenze e in queste ultime percepire grandi diversità. Provo a spiegarmi meglio: per circa quindici anni ho usato solo il rosso, ma pur facendo questo, entrando nel colore e nel gesto, non avevo il sentore di lavorare con il monocromo ma di incontrare gradazioni, sfumature, trasformazioni. Nel corso degli anni ho svolto un allenamento percettivo. Tradotto nella vita, queste attività sono parte del mio rifinire l’attenzione, ma anche capacità di riconoscere l’importanza di quello che succede. Probabilmente è da lì che nascono le reazioni.
Sul piano più personale, per niente estraneo alla tua vita di artista, vi sono dei punti fermi?
Sono interessata soprattutto a intessere un dialogo basato sul riconoscimento delle similitudini, dalla possibilità di costruire insieme alle altre persone una visione delle cose, un discorso che possa essere condivisibile e non sul cercare di sentirmi unica e diversa separandomi dagli altri. Per me è importante sentirmi parte di un mondo condiviso.
Perché la pittura?
Intanto, si tratta della fiducia che io ripongo da sempre nell’atto pittorico, nella possibilità che abbiamo di lasciare tracce della nostra esistenza attraverso questo gesto primigenio, il toccare. L’origine di tutto è per me un gesto tattile, non visivo. Una mia opera che ormai stratifico da più di venti anni – il “Quadro infinito” – mi permette di insistere proprio sulla priorità del tatto rispetto alla vista.
Maria Morganti e il suo modo di intendere la pittura
Spesso un termine che associo al tuo lavoro è ‘riposo’, come se tu procedessi secondo una pratica profondamente meditativa.
Il mio tentativo è di dare valore allo spazio vuoto, all’inutilità, persino al non fare niente. ‘Riposo’ mi piace, specialmente perché sono interessata all’assenza del fare per arrivare al fare. Parte del processo è proprio quello di far sì che nel momento del vuoto e della pausa, si riesca a prendere coscienza del pieno che si è riempito attraverso l’atto.
E come la mettiamo con le interferenze, con tutti quegli incidenti che possono verificarsi mentre sei al lavoro?
Svolgendo le mie attività mi trovo continuamente a fare i conti con momenti che non sono tutti topici, seguo la consequenzialità degli accadimenti. Dato che tutto intercorre all’interno di questo processo, tutto sarà trattenuto. Quindi, tutto ciò che è accidente, deviazione, intromissione viene inglobato nel mio sistema. Nella mia mostra alla GAM di Torino si capisce bene che cosa questo significhi. Tra le opere esposte c’è anche una tela tagliata. Da dove arriva? Da un incidente avvenuto nel mio spazio di lavoro: un’altra opera, nello specifico il “Quadro infinito”, che è caduta e ha investito la prima squarciandola. Ho fatto di tutto perché quest’opera fosse esposta in questa mostra insieme ad altre in cui sono evidenti dei distaccamenti o dei craquelé, proprio per far capire quanto sia importante per me accogliere le trasformazioni successive, anche quelle non determinate dal mio volere, ma dal mutamento della materia stessa, dal caso o dall’azione di un altro essere umano.
Un’altra questione decisiva è anche la tua insistenza a contraddire i modi di fare pittura.
È così. E anche in questo caso il senso di quella questione penso si possa cogliere nella mia personale torinese. Quella insistenza si traduce con il fatto che la mia pittura va contro la tecnica della pittura a olio. Come noto, la regola è: comincia con il secco e via via ingrassa; ossia aggiungi olio, onde evitare che la pellicola si stacchi. La pittura a olio è fatta per velature. Io procedo insistendo ad aggiungere strati, stendendoli all’inverosimile, in modo tale che arrivi a palesarsi la fragilità della pelle della pittura.
Rispetto al tradizionale modo di farla e intenderla, come la consideri la tua pittura?
Come se fosse sostanzialmente affine a quello che è già stato fatto in pittura. Facendola, io dico qualcosa che è sempre stato detto, che si sta dicendo accanto a me e che immagino si dirà certamente anche dopo di me. Certo lo faccio a modo mio. Ma sono profondamente legata alla storia della pittura.
Eppure, tu scegli di percorrere altre strade.
Ci sono più ragioni. La riflessione sul rapporto tra pensiero e azione pittorica la coltivo da tempo, da quando ho iniziato a dipingere a quindici anni. Il quesito allora era proprio questo: ma viene prima il pensiero o viene prima l’azione? Ma, in fondo, per me si è sempre trattato di seguire il filo di una interrogazione su quel gesto ancestrale dal quale deriva poi l’attività pittorica, il toccare una superficie. Il mio interesse è molto forte sia per questa dinamica sia per il ruolo che ha il colore. Fin da bambina, le mie esperienze con i dipinti, le descrivevo anzitutto con i colori: ho visto un rosso contro un blu, un piccolo punto giallo su una superficie verde… Ciò che determina tutto è la possibilità di seguire quelli che sono accadimenti evidentemente naturali. La materia continua a reagire poiché porta in sé la sua naturale fragilità. Questa per me è la pittura.
Davide Dal Sasso
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