Il murale censurato dell’artista Flavio Favelli. Altre riflessioni sull’arte nello spazio pubblico
Gli artisti devono uscire dal proprio solipsismo e affrontare l’imprevisto. Il caso di Flavio Favelli e dell’opera Regal a Casalecchio di Reno è emblematico in questo senso, anche se l’artista ha saputo come cambiare rotta
Leggo su Artribune dell’ennesimo artista che rimane sbalordito degli imprevisti che possono accadergli quando tenta di lavorare nei contesti sociali e fenomenologici in cui vorrebbe inserire la sua idea d’opera d’arte preconfezionata, restando trasecolato quando non riesce a controllate a suo favore i fattori e i processi che incorrono nella realizzazione del proposito da lui stabilito. Sembrerà strano loro, che è il sottoscritto che rimane attonito nel leggere della loro incapacità di riuscire a ribaltare la prospettiva attitudinale quando, a differenza di una mostra, si confrontano con lo spazio pubblico. Cogliere l’imponderabile come probabilità costitutiva dell’opera d’arte è una propensione necessaria al professionista che sceglie questo complesso campo d’azione. Motivo che rende la più antica delle categorie dell’arte ancora interessante e arricchente umanamente.
Cosa significa lavorare nel contesto urbano
Operare nel contesto urbano e pubblico, è un’operazione, per nulla semplice, che implica, per chi lo fa, un concepimento costitutivo di una materializzazione (o performativizzazione) che è il risultato di molteplici fattori, spesso non determinabili a priori. L’opposto di una perentoria calibrazione di elementi che vengono scelti dall’artista in un ambiente ovattato, qual è il suo studio. Realizzare un’installazione context specific è un lavoro di ascolto, in cui, spesso, il compromesso è una peculiarità che indica la maturità (dell’artista) della rinuncia di un’idea rigidamente aprioristica, per erigere quello spazio ibridato e relazionale che è parte fondamentale dell’esito dell’operazione culturale. Traguardo comunitario che precede di millenni le teorie di Nicolas Bourraud.
Credere che lo status di artista basti a essere salutato come il portatore di un messaggio profetico capace di guarire le anime contaminate della postmodernità è quello che abbiamo spesso assistito nei decenni della Re(s)pubblica. Dalla “Nuova Gibellina” degli Anni Settanta a “Napoli Contemporanea” d’oggi, numerosi progetti visionari nei centri abitati sono stati oggetto di problemi d’accettazione da parte della moltitudine.
Il dialogo sociale con l’arte
Da oltre mezzo secolo emerge, a discapito di tutti, una figura dell’artista contemporaneo che sceglie di allargare il proprio spazio di azione al di fuori del consueto luogo espositivo della galleria, una figura che si è astenuta dall’indagare un nuovo approccio metodologico necessario al diverso ambito, e che continua a farlo. Evidentemente, esportando la propria prassi usata in contesti privati e limitandosi a moltiplicare le dimensioni dell’oggetto per un banale rapporto di scala con i grandi spazi urbani, questo tipo d’artista ha creduto che l’arte sia una questione di proporzioni tra forme inermi e priva di una dialogica sociale. Un approccio che rientra a pieno titolo nel decorativismo, con l’aggravante di logiche autoreferenziali e commerciali, in quanto riproduzioni iconografiche dell’offerta del “prodotto” arte. Un atteggiamento di matrice statunitense che, probabilmente, è più lecito giustificarlo ad un’amministrazione municipale di un piccolo paese del Belice devastato dal terribile sisma del 1968, ente che coinvolse grandi nomi del panorama artistico nazionale con l’intento di donare alla nuova città, sorta ex nova una decade dopo in un area a 15 km dal suo sito originario (oggi “Grande Cretto”, la commovente opera-mausoleo di Alberto Burri), e ai cittadini sfollati, simboli spirituali e laici che avrebbero dovuto aiutare alla ricostruzione identitaria di una comunità frammentata dalla calamità naturale. Meno giustificabile è la totalità della proposta artistica di un critico d’arte, con anni di esperienza in importanti istituzioni italiane, che sta curando, nell’ultimo biennio, un progetto artistico per le piazze di Napoli.
Il progetto di Marinella Senatore a Napoli
Considerando che l’unico evento compartecipativo da lui pensato, il lavoro di Marinella Senatore, che avrebbe coinvolto i partenopei in una manifestazione gioiosa, è stato annullato per volontà della stessa artista, dopo aver appreso la terribile sciagura provocata dal crollo di un edificio cittadino. Decisione, da parte dell’artista, che dimostra la sua sensibilità nel saper rispondere a fatti imprevisti con una restituzione culturale in extremis rivolta alla collettività locale, anche nella forma del niente.
Rispetto alla maggioranza di arte monumentale apparsa sul territorio nazionale, in questo lasso temporale, periodi in cui lo stile degli artisti è divenuto meno generoso semioticamente, non meraviglia la ritrosia del cittadino all’apparizione di qualcosa calata dall’alto, costretto a convivere nel suo quartiere con una presenza imposta come un dogma.
Se ci si reca a (nuova) Gibellina per visitare i siti artistici e, capitasse di parlare del progetto con i paesani, ci si renderebbe subito conto che le opere d’arte presenti non sono mai state accettate dalla comunità siciliana. Sull’ultimo progetto napoletano di arte urbana è inutile aggiungere altro, è già stato ampiamente dibattuto internazionalmente; ai fini del discorso, è solo utile notare il palese atteggiamento del popolo che ha messo alla berlina l’intera manifestazione.
La relazione tra artisti e arte pubblica
Se l’artista rimane frustrato da cosa può accadere nel mondo, dalla censura al rogo, fatti che a volte superano ogni possibile immaginazione (finanche a comportamenti che mettono a repentaglio l’incolumità e come tali vanno condannati a gran voce!) ma che, nel buon senso, devono essere accettati ideologicamente in basica e indispensabile consapevolezza dell’altro-da-sé, è perché non ha compreso quali devono essere i processi per il raggiungimento dello status coabitativo di quei luoghi e contesti, che sono fattori costitutivi dell’opera d’arte fuori da un’esposizione.
L’opera d’arte nel contesto pubblico e urbanizzato dovrebbe essere intesa come un’istituzione culturale a sé stante (tenendo in considerazione che difficilmente porta seco il background del lavoro che l’artista ha svolto in precedenza e altrove), processando, de facto, una complessa organizzazione e assurgendo a luogo in cui far accadere, dentro o intorno ad essa, universali culturali capaci di forgiare un’identità collettiva. Dunque, il lavoro dell’arte nello spazio sociale (composto da fruitori non specializzati, sembra banale dirlo), qualunque essa sia, deve assumere gli aspetti di un micro-museo ma composto da una singola opera, come un fiore tra l’asfalto.
La missione dei Musei secondo ICOM
La definizione di ICOM sulla missione che un ente di questa natura dovrebbe perpetrare può venirci in aiuto: “Il museo è un’istituzione permanente senza scopo di lucro e al servizio della società, che effettua ricerche, colleziona, conserva, interpreta ed espone il patrimonio materiale e immateriale. Aperti al pubblico, accessibili e inclusivi, i musei promuovono la diversità e la sostenibilità. Operano e comunicano eticamente e professionalmente e con la partecipazione delle comunità, offrendo esperienze diversificate per l’educazione, il piacere, la riflessione e la condivisione di conoscenze”.
È una definizione e, ovviamente, come tale va interpretata, anche se ci sono stati artisti italiani antesignani di questi valori. Alberto Garutti, come è noto, trascorreva il tempo dedicato ai sopralluoghi, per la realizzazione delle sue opere, ad ascoltare i cittadini. Un metodo che gli permetteva di costruire processi d’arte compositi, partendo dal fruitore, sovente rinunciando ad una forma riconoscibile del suo lavoro. Un altro virtuoso esempio in questo senso è stato lo sforzo di Massimo Grimaldi nel 2010 che, come vincitore del concorso d’arte per un’opera d’arte da installare nella piazza antistante al MAXXI di Roma, ha saputo cogliere l’occasione di un budget stratosferico (il 2% del costo di costruzione del museo progettato da Zaha Hadid, percentuale economica stabilita da una legge varata nel 1949 per inserire progetti d’arte adiacenti – e di pubblica fruizione – in concomitanza alla realizzazione dei nuovi assetti architettonici post bellici) per un unicum collaborativo con Emergency alla realizzazione di un ospedale in Uganda. Egli, restituendo alla piazza nostrana un film-documentario proietatto sulla facciata dell’edificio museale, non ha rinunciato a informare la collettività (istituzione, committente e pubblico), in maniera eloquente, del processo della sua idea vitale: opera maieutica e pedagogica che, da allora, è entrata a far parte della collezione permanente del museo, e quindi della collettività.
Chiaramente, l’aiuto di un progetto strutturato riesce a spronare gli artisti a immaginare opere giuste, ma ciò non toglie che anche nell’autoproduzione, proporzionalmente, l’intento di restituire un progetto d’arte ai pubblici, eterogenei per grado e compartecipazione, dovrebbe essere uno dei principali obiettivi di un artista che vuole operare in dati contesti.
Il non previsto di Flavio Favelli
Cambiando il soggetto del murale pensato specificamente per la forma tridimensionale di una cabina elettrica nel bolognese, Flavio Favelli ha saputo risolvere il “non previsto” (l’azione censoria di un’azienda con fini privatistici che si è opposta alla figurazione del progetto originario, come spiegato da lui stesso), dimostrando di avere le capacità di affrontare fattori evenemenziali, tipici di un iter per la produzione di un’opera-luogo soggetta al prossimo. Spiace però leggere che ne parli con questo livore, come se l’accaduto uscisse dal selciato della sua idea d’arte nel pubblico contesto. È impossibile credere che non ci siano stati impedimenti di sorta nella costruzione di un ospedale in Africa o che Alberto Garutti non abbia conosciuto, nelle sue assemblee, un cittadino diffidente. Facile invece pensare che, questi artisti, non hanno mai lasciato dichiarazioni sui cambiamenti in corso d’opera dei loro progetti per il fatto che ne erano consapevoli dal principio, coerentemente con un lavoro condiviso. Essere consci del proprio ruolo è fondamentale quando si esce dal solipsismo, se così non fosse sono proferibili gli epigoni della Street Art, con i loro motivi floreali.
Daniele Nicolosi
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