La pittura secondo Francesco Clemente. Intervista per la sua prima grande mostra a Roma
L’amore per l’India e per la pittura, il legame con Napoli, la vita negli Stati Uniti, la fede mariana, la riscoperta di se in Cina e l’antipatia per la storia: intervista a tutto campo all’artista Francesco Clemente
Francesco Clemente (Napoli, 1952) mi riceve seduto per terra, all’interno di una delle tende esposte nella mostra Anima Nomade, curata da Bartolomeo Pietromarchi al Palazzo delle Esposizioni: la più importante personale dell’artista realizzata in un’istituzione pubblica romana, aprendo al pubblico il 23 novembre.
Intervista a Francesco Clemente
Com’è nata la mostra al Palaexpo?
Da una conversazione con Marco Delogu e Bartolomeo Pietromarchi non molto tempo fa, su un’idea omeopatica: invadere la città con un corpo estraneo benefico, diverso dai corpi estranei, meno benefici, che circolano nel mondo.
Che effetto ti fa essere protagonista di una grande mostra pubblica nella città così importante per la tua formazione?
A Roma non mostro da tempo: in Italia ricordiamo la retrospettiva al Madre di Napoli, curata da Mario Codognato e Eduardo Cicelyn, quella agli Uffizi dei Tarocchi e degli Apostoli curata da Max Seidel e ora qui. Sono molto felice di fare una mostra vasta come questa: tra le tende e i murali c’è tanta pittura al Palazzo delle Esposizioni.
La mostra si intitola Anima nomade, ed è dedicata al tuo interesse per la cultura indiana. In che modo Oriente e Occidente si incontrano nel tuo lavoro?
Sono stato affascinato dal dialogo tra India e America. Sono cresciuto leggendo i poeti della Beat generation e sono stato in India a 19 anni la prima volta…Ho scoperto nel tempo che c’è stato un rimbalzare di idee tra i trascendentalisti americani e i riformisti induisti. Sono affascinato da questo dialogo e ho voluto testimoniarlo a modo mio.
Tutta la mostra è costruita sull’idea di spazi immersivi. Cosa significa per te la relazione con lo spazio?
Mi è sempre piaciuta la storia del pittore cinese che alla fine della sua vita, quando finalmente è riuscito a dipingere un paesaggio che era vivo e reale, ci è entrato dentro e non è più tornato indietro. Diciamo che le tende sono il mio tentativo di entrare in un mondo della pittura dal quale non voglio più ritornare.
Una serie di opere che compongono un’unica installazione ambientale. Come hai immaginato questo passaggio?
Il titolo della mostra è cambiato nel tempo in precedenza si chiamava Accampamento, poi in maniera forse eccessiva volevo chiamarlo Tendopoli. Poi mi hanno dissuaso e Bartolomeo ha proposto Anima Nomade, che mi ha conquistato per la presenza di molte lettere m, simbolo della Vergine: noi siamo tutti devoti alla Vergine.
Quanto sono state importanti nella tua ricerca i luoghi dove hai vissuto come Napoli, Roma, New York o Madras?
Ho avuto sempre un’antipatia profonda per la storia, e più la storia si risveglia in questi anni e più mi è antipatica. Ho preferito rifugiarmi nella geografia: Napoli è una città pagana, Roma è una città alchemica dove il crogiuolo si è spaccato e ha sparso frammenti in giro. New York è una città viva, con tutti i malanni e le estasi della vita. Mentre Madras mi ha insegnato la dolcezza della resa.
Qual è il messaggio che vuoi dare al pubblico della mostra?
Non do messaggi. La differenza tra l’artista e il non artista è la seguente: il non artista prescrive mentre l’artista descrive. Vorrei che le persone entrassero nelle tende, e sarei felice se qualcuno si addormentasse all’interno di una di loro.
Qual è l’origine di queste tende?
Le ho fatte nell’arco di quattro anni, dal 2010 al 2014. Sono sei, tutte fatte in una fabbrica di tende che in precedenza faceva tende per l’esercito indiano. Tantissimi anni fa ho scritto quali erano le tre sculture che avrei voluto fare, da pittore: una spada, una lampada e una tenda.
E quando l’hai realizzata?
In un periodo felice nel quale il mondo dell’arte mi aveva un po’ dimenticato ho passato molto tempo in Cina, dove mi sono riconciliato con tutto quello che è troppo grande. In Occidente mi dava fastidio, ma in Cina diventa comico e paradossale e quindi mi ha fatto tenerezza. Queste tende sono una risposta per un’arte grande, ma siccome la mia arte è intima, sono il limite di quanto monumentale possa essere la mia arte.
Qual è lo stato della pittura oggi?
Sono felice che la pittura proliferi. Ricordo che quando iniziai a dipingere, nella seconda metà degli Anni Settanta, persi l’amicizia di molti artisti che mi educavano, come Alighiero Boetti. La pittura è un linguaggio legittimo come ogni altro, e sono contento che sia tornata in auge.
A proposito di pittura, vuoi spiegare l’origine dei wall drawing esposti in mostra?
Sono murali, che rinforzano il senso di effimero della mostra, e vengono realizzati con un protocollo molto semplice. Il primo l’ho fatto in Cina, cinque anni fa, poi a Berlino, a Dallas e a Roma. Ad accompagnare i murali c’è una collezione di bandiere sulle quali sono ricamate frasi estratte dal libro La società dello spettacolo di Guy Debord: una profezia incomprensibile negli Anni Settanta e oggi fin troppo attuale.
Ludovico Pratesi
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