La scultura più importante alla mostra del Futurismo a Roma potrebbe essere ritirata da chi l’ha prestata
Roberto Bilotti, prestatore della celebre scultura di Boccioni “Forme Uniche della continuità nello spazio” racconta ad Artribune perché la didascalia e l’allestimento sono concettualmente e scientificamente da rivedere
All’indomani dell’inaugurazione della grande mostra Il tempo del Futurismo 1909 – 1924 alla GNAMC di Roma sorgono nuove incomprensioni. L’opera della discordia è ancora una volta l’iconica e ammirata Forme Uniche della continuità nello spazio, della collezione Bilotti.Scultura ideata in gesso nel 1913 da Umberto Boccioni, (Reggio Calabria, 1882 – Verona, 1916) e tradotta poi in bronzo con la tecnica del surmoulage, nel 2011, con esplicito consenso degli eredi. Un’opera che, come ha ben spiegato Alberto Dambruoso, non poteva assolutamente mancare in mostra, in quanto rappresentativa di Boccioni e del movimento; di cui si contano 24 esemplari nel mondo, 7 dei quali in Italia.
Per approfondire, abbiamo incontrato Roberto Bilotti Ruggi d’Aragona, prestatore della scultura che l’ha concessa per la mostra nonostante l’opera fosse appena rientrata da un tour mondiale organizzato dal Ministero degli Esteri.
I dettagli sulla scultura proveniente dalla Tiratura Sprovieri-Bilotti
Come ha specificato Roberto Bilotti: “L’opera fa parte della Tiratura Sprovieri-Bilotti, realizzata per volontà documentata il 23 novembre 1933 di Filippo Tommaso Marinetti, con autorizzazione delle eredi Marinetti, dopo il periodo coperto dai diritti d’autore di competenza dei discendenti dell’artista; pertanto legalmente l’unico esemplare legittimo sotto questo profilo. Il Prof. Maurizio Calvesi”, ha continuato Bilotti, “è stato il curatore scientifico del progetto marinettiano. Il gesso primario, a San Paolo del Brasile, era molto rovinato, peraltro ricostruito in gran parte, calcando il bronzo, da Vittorio Senigaglia. La tiratura Sprovieri-Bilotti, eseguita con le autorizzazioni preventive dei Marinetti, ratificate dal notaio di Ala Marinetti, invece, è ricavata dal bronzo del 1949 di Paolo Marinotti oggi a Hilti Art, in Liechtenstein, con metodo surmoulage, ovvero un calco da bronzo finito”.
Date le premesse, abbiamo incontrato Roberto Bilotti per approfondire la questione
L’intervista a Roberto Bilotti
Ci può spiegare la situazione dall’inizio?
Per esporre la scultura in questione, il comitato scientifico della mostra aveva in un primo momento pensato di rivolgersi al Museo del Novecento di Milano, per richiedere l’esemplare realizzato 17 anni dopo la morte dell’artista. Ipotesi scartata, oltre che per i problemi di movimentazione dovuti al precario stato di conservazione dell’opera, per il suo essere considerata dagli stessi eredi Marinetti “da rifare”; come attestato dalle scritture del giugno 1952 di Benedetta Marinetti; in quanto: “monca di base continua per errore della fonderia, in lega fragile e troppo levigata“. E per di più recentemente ricostruita per il 35,94% sulla base di foto, dopo l’incidente occorso nel 2023, dunque troppo lontana dal gesso primario.
Quindi, come hanno pensato di procedere per risolvere la situazione?
Avevano pensato di avvalersi di un bronzo dell’edizione commerciale La Medusa, realizzato in ottemperanza al contratto dell’11 aprile 1970 tra Paolo Marinotti e la Galleria. Tuttavia anche questa versione si è rivelata inidonea per diversi motivi. Tale tiratura era stata, infatti, impugnata il 21 novembre 1974 dal Professor Albert Elsen per B.C. Holland, Inc. perché contraria agli accordi contrattuali tra Benedetta Marinetti e Paolo Marinotti e fusa quando l’opera di Boccioni era ancora soggetta alla tutela della Legge sui diritti d’autore.
E il bronzo del Guggenheim?
La scultura del Guggenheim di Venezia, fusa nel 2004-2005, è stata scartata perché priva di riferimenti in merito alla derivazione della forma che non compaiono nel catalogo generale.
Quindi si sono rivolti a lei?
Esatto. Il bronzo Bilotti, voluto dai Marinetti in attuazione della volontà di Amelia Boccioni, è l’unica fusione ritenuta legale nel rispetto dei diritti d’autore e dotata dell’autorizzativo dei Marinetti. Rosalind McKever del Metropolitan Museum New York, autrice di numerose pubblicazioni sui bronzi postumi di Boccioni, a proposito della stessa ha scritto: “il mecenate Roberto Bilotti ha completato tardivamente l’ambizione di Marinetti di portare un calco di “Forme uniche” nella Calabria natale di Boccioni”. Inoltre, ad ulteriore riprova del suo valore, l’opera, la n° 2/6 della stessa tiratura, è stata dichiarata di “interesse particolarmente importante” con Decreto ministeriale n° 77 del 15 maggio 2013 del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, nonché trascritta nel Catalogo Generale dei Beni Culturali: codice di catalogo Nazionale n° 1800178047, numero d’inventario 2072 – 2013 del Ministero della Cultura.
La didascalia del Bronzo Bilotti
E invece, com’è presentata l’opera in mostra?
In contraddizione a quanto espresso (come appena riportato) dallo stesso Ministero della Cultura, l’opera è stata esposta alla GNAMC con una didascalia totalmente sbagliata che non ne rispecchia l’inquadramento scientifico e amministrativo pregresso. Una didascalia che contraddice persino quella realizzata dal Ministero degli Esteri, con cui era stata esposta solo pochi mesi prima e che non tiene conto delle indicazioni specifiche di Rosalind McKever, esperta anche di questo specifico lavoro.
Può dirci di più?
La didascalia introduce delle modalità inedite di descrizione dell’opera. Per prima cosa indica la tecnica, perfino con un errore di traduzione, dal momento che al posto del corretto “Fusione da bronzo finito” traduce sciattamente surmoulage con il termine “riproduzione”. Poi non riporta la data 1913, del concepimento dell’opera e, solo alla fine, presenta il nome del povero Boccioni, delegittimato di una delle sue creazioni più riuscite. Inoltre, è stata collocata su una base in marmo contro la visione dello stesso artista, concettualmente avverso alla “nobiltà tutta letteraria del marmo“.
Hanno adoperato le stesse modalità per l’altro bronzo in mostra?
Le stesse illogicità non si verificano per l’altro bronzo postumo di Boccioni in mostra, Sviluppo di una bottiglia nello spazio, che rappresenta il movimento e la ricerca sui rapporti tra forma e spazio. Un’opera molto lontana dalla scultura primaria, ricavata all’epoca dal formatore Cesare Gariboldi direttamente dal modellato in argilla di Boccioni. Il bronzo in mostra, infatti, è stato ricavato da un calco in gesso realizzato dallo studio Bartolotti di Milano per conto di Fedele Azari, dopo l’assemblamento dei frammenti ritrovati da Marco Bisi presso la discarica di “Acqua Bella” in Via di Porta Romana. Il gesso originale, infatti, come gran parte della produzione plastica di Boccioni, era stato distrutto nel 1927 da Piero da Verona. Bisi ha riassemblato empiricamente i frammenti, rimodellandoli – anche nelle parti sbriciolate – sulla base di foto. Con un risultato, tuttavia, molto distante dalla forma primaria, nella misura in cui, come dichiarò in un’intervista a Marco Rossi Lecce lo stesso Bisi era “impossibile riassemblare una scultura futurista perché mancano i riferimenti”. Azari cedette comunque uno dei gessi ricavati da questa operazione di assemblamento ad Ausonio Canavese, collezionista torinese, che nel 1934 lo donò al Comune di Milano il quale, dopo ulteriori manipolazioni della forma, ne fece trarre un bronzo di cui esistono 8 esemplari, uno dei quali è qui esposto. In questo caso la didascalia è fuorviante e non rispecchia il rigoroso inquadramento dell’opera. Citando semplicemente: Umberto Boccioni, Sviluppo d’una bottiglia nello spazio 1912 (1932), Bronzo. Insomma, due pesi e due misure.
Roberto Bilotti le perplessità sulla mostra e il catalogo
Ci rivela l’ultima sua perplessità sulla mostra?
Sempre a proposito di Boccioni, devo dire che si nota una grande assenza, quella dell’unica scultura superstite in gesso: L’Antigrazioso del 1912. Resa ancora più eclatante dal fatto che l’opera paradossalmente fa parte della collezione della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma sin dal 1952 quando fu donata al Museo dalle eredi.
Cioè la GNAM non ha esposto nella mostra del Futurismo una delle opere più importanti del Futurismo che ha in collezione?
Già. Si tratta di un altro lavoro fondante della poetica futurista, dato che nel ritrarre la madre, soggetto prediletto di Boccioni, l’artista esplicitamente dichiarò di voler trasgredire all’antico italico canone della “rassomiglianza e del puerile inganno ottico”, presentando una bellezza femminile trasformata, non cancellata. Secondo Boccioni, infatti, per non cadere nel “grazioso” era doveroso per i futuristi “sconquassare, atterrare e distruggere la nostra tradizionale armonia” a favore della nuova estetica futurista: brutale, violenta e “barbarica”.
Misteriosamente dopo qualche ora dall’inaugurazione della mostra la didascalia risultava staccata…
Non ne so niente. Sarà caduta? Si saranno resi conto dell’errore? Certo è che se non verrà modificata sarò costretto a ritirare l’opera.
Ludovica Palmieri
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