Estrattivismo e forme di resistenza in Italia e in Sud America. Parla l’artista Adrián Balseca 

Una mostra che cerca di recuperare e coltivare nuove narrazioni all'interno del paesaggio post-industriale di Torino. Esplorando prospettive non occidentali sulla natura. L’intervista ad Adrián Balseca

“In che modo la trasformazione dello slogan La fuerza del cambio può mettere in discussione la nostra comprensione del potere, non solo nella sua organizzazione, ma anche in parallelo ai suoi principi fisici di accelerazione, decelerazione e cambio di direzione?” Con questa riflessione dell’artista ecuadoriano Adrián Balseca (Quito, Ecuador, 1989) si apre la conversazione attorno alle tematiche dell’ecologia e delle politiche estrattiviste occidentali, realizzata in occasione della mostra Cambio de Fuerza a cura di Marco Scotini al PAV di Torino.  

Intervista ad Andrián Balseca 

Cambio de Fuerza è la tua prima mostra personale in Italia, in un contesto tutt’altro che neutrale. Infatti, la storia del PAV – edificato in un’area prima occupata dalla Framtek – rispecchia la poetica delle tue opere. Come è nata l’idea di questo progetto? Che valore attribuisci alla vita che si sviluppa negli spazi liminali, abbandonati dall’uomo? 
Cambio de Fuerza non rappresenta solo la mia prima mostra personale in Italia, ma anche la presentazione dei miei lavori dal 2014 al 2024 in dialogo con il materiale di ricerca che ho raccolto nel corso degli anni. Questa mostra mi ha offerto la preziosa opportunità di mettere in dialogo una varietà di mie opere, accanto a selezioni tratte dal mio archivio personale. La decisione di ospitare la mostra nel contesto post-industriale di Torino—precisamente al PAV—nasce da una connessione percettiva identificata da Marco Scotini, il quale ha individuato una risonanza tra il mio decennale studio sull’estrattivismo e le narrative predominanti sull’eredità industriale dell’Europa post-industriale.  

Spiegaci meglio…. 
Proprio come le piante si riappropriano delle lattine derivate dal petrolio in Plantasia Oil Co. (2021–in corso), questa mostra cerca di recuperare e coltivare nuove narrazioni all’interno del paesaggio post-industriale di Torino. Esplora prospettive non occidentali sulla natura, illuminando “l’altro lato” dell’industria automobilistica—in particolare il suo impatto su specifici ecosistemi e le conseguenze ambientali delle pratiche estrattive necessarie per produrre materie prime. 

Come è noto, la cartografia è stata molto utilizzata in ambiti economici, politici, coloniali e capitalistici. Che storia c’è dietro alle due mappe in mostra?  
Sento che essere nato e cresciuto in Ecuador mi ha spinto a riflettere sulla mia identità legata a uno Stato-Nazione, costruito su un concetto geografico egemonico rappresentato dalla linea dell’Equatore. Questa linea, utilizzata per dare il nome al paese e come base per un sistema di misurazione globale, è stata anche uno strumento dell’espansione coloniale. Le mappe esposte al PAV sono il risultato di sei anni di ricerca e includono carte economiche, etnografiche e politiche del XX secolo, connesse a studi geologici sull’estrazione di risorse nell’Amazzonia ecuadoriana.  

Ad esempio? 
Tra queste, figurano mappe di Texaco-Gulf e Polémica No. 1, che documentano le concessioni petrolifere attive nell’Amazzonia ecuadoriana. 
L’opera The Unbalanced Land approfondisce il confronto tra modelli epistemologici e rappresentativi, utilizzando la “proiezione omolosina” di John Paul Goode. L’impossibilità di imporre la proiezione di Goode su terreni sinuosi e instabili evidenzia le difficoltà nel tradurre concetti geografici occidentali di un mondo più equo in territori reali, rivelando infine la strumentalizzazione della conoscenza e gli squilibri socioeconomici nelle periferie del mondo tardo-capitalista. 

Molti materiali di archivio in mostra rappresentano pubblicità di industrie italiane come la Pirelli, altri sono illustrazioni inglesi raffiguranti pneumatici, accanto ai quali sono presenti delle diapositive da te realizzate. Di che cosa si tratta? Qual è la storia di estrattivismo che l’occidente ancora ignora? 
In collaborazione con il team curatoriale di Scotini, abbiamo connesso le due sale espositive con materiali d’archivio – raccolti negli ultimi otto anni – relativi all’industria della gomma e all’estrazione dell’Hevea brasiliensis. Nel 2016, con The Skin of Labour (2016), ho rivisitato i processi estrattivi che hanno preceduto l’estrazione petrolifera nella regione. Da allora, ho iniziato a vedere la storia come un materiale in sé. Presentare gli archivi che ho raccolto è diventato un modo per ampliare e condividere il mio processo creativo. A completare il percorso è la serie Incisiones (2019), fotografie che documentano le trame di battistrada di grandi multinazionali come Firestone e Goodyear, intagliate nella corteccia di alberi di gomma per simboleggiare l’impronta industriale sulla natura.  

Che cosa mostrano questi archivi? 
Come l’industria della gomma abbia alimentato l’asservimento delle popolazioni indigene durante il Rubber Fever Boom (1870–1920) nella foresta amazzonica. In questo processo storico intravedo le fondamenta dell’estrattivismo moderno, che oggi si manifesta nell’estrazione mineraria a cielo aperto, nell’estrazione petrolifera e persino nell’espansione dell’industria farmaceutica nella regione. 

A cosa si riferisce il cambio di forza dichiarato nel titolo? Penso, ad esempio, al collettivo artistico Tranvía Cero di cui tu hai fatto parte. Quale visione dell’arte emerge dai loro numerosi progetti? 
La mostra Cambio de Fuerza trae il suo titolo da un gioco di parole sullo slogan politico del 1979 La Fuerza del Cambio, utilizzato da Jaime Roldós Aguilera, il primo presidente democraticamente eletto in Ecuador dal 1968. La sua elezione segnò l’inizio del periodo politico nazionale dell’Ecuador noto come El Retorno a la Democracia. Trasformando La Fuerza del Cambio in Cambio de Fuerza, la frase subisce un importante cambiamento di significato, suggerendo una trasformazione nella natura stessa della ‘forza’—come essa è organizzata, distribuita e resistente. Tuttavia, le aspirazioni democratiche di quell’epoca furono rapidamente compromesse dall’avanzata del neoliberismo, portando i movimenti indigeni a ripensare il concetto di cambiamento, ponendo la domanda critica: “Cambiamento per chi?”.  

Cosa accadde, dunque? 
Nel 1980 fu formato il Consiglio Nazionale per il Coordinamento delle Nazionalità Indigene dell’Ecuador (CONACNIE) con l’obiettivo di consolidare i popoli e le nazionalità indigene. Questo gettò le basi per significative mobilitazioni. La prima grande insurrezione indigena in Ecuador avvenne nel giugno del 1990, guidata dal CONAIE il quale, negli anni successivi, si evolse in un potente movimento di resistenza, che richiedeva sovranità per i territori, il rispetto delle cosmo visioni e dei diritti della natura. 

E in arte? 
La mia esperienza artistica si è formata in un contesto segnato dalla crisi economica e bancaria dell’Ecuador tra il 1999 e il 2000. Il Feriado Bancario distrusse il sistema finanziario, congelò i depositi bancari e portò milioni di persone alla povertà e alla migrazione, culminando nella dollarizzazione del 2000. Questo sconvolgimento economico segnò l’inizio del XXI secolo per un gruppo di artisti a Quito che, in questo contesto, si rivolsero a pratiche relazionali e al lavoro comunitario, tessendo sistemi di solidarietà al di fuori di un mercato artistico inesistente. La mia partecipazione non accademica al collettivo Tranvía Cero tra il 2006 e il 2009, divenne la mia esperienza formativa nel campo delle arti visive, fornendomi non solo alcune linee guida estetiche, ma anche un profondo interesse per “gli altri” e una marcata fascinazione per la comprensione dei fenomeni economici. 

Alessia Riva  

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