Lavorare con la natura. Nello studio romano dell’artista Marta Abbott

Abbiamo incontrato l'artista di origine ceca-americana, nata ad Amsterdam, cresciuta in USA e attualmente a Roma, nel suo piccolo atelier a Portuense 201. Microcosmo urbano di ideazione e produzione contemporanea

Dopo un’infanzia a diretto contatto con l’atmosfera artistica dello studio della madre in Connecticut, Marta Alexandra Abbott, classe 1983, intraprende studi accademici nell’ambito delle belle arti, specializzandosi nel campo del restauro e del floral design, prima di dedicarsi completamente alla pittura. Pubblicate in varie riviste e incluse in collezioni private in tutto il mondo, quelle di Marta sono opere che tendono ad abitare territori al di là delle categorie convenzionali, mescolando il concettuale con l’intuitivo, la ricerca con la spontaneità e la sperimentazione. L’obiettivo? Offrire una nuova prospettiva sull’ambiente circostante e su noi stessi, celebrando i modi in cui utilizziamo la natura, di cui siamo parte integrante, come mezzo di connessione, comunicazione e interpretazione. Ma anche creare un nuovo e intimo filtro attraverso cui osservare il mondo, riconoscendo i macrocosmi all’interno dei microcosmi, l’universalità nell’individuo e viceversa.

Mostre e lavori di Marta Abbott

Il 2024 è stato un anno intenso, ricco di mostre e partecipazioni, nazionali e internazionali. Come Hour of the Rose, presentata a Milano negli spazi del Superstudio Maxi (all’interno della rassegna Brushing the Trigger a cura di Cecilia e Luisa Ausenda), risultato di una ricerca fotografica ispirata ai racconti di Charles P. Griner sulle feste effimere dell’antica Roma, allestite con l’abbondante spargimento di petali di rosa e la disposizione artistica di fiori per adornare i banchetti. In questa serie, Marta Abbott combina e sovrappone fotografie ad alta risoluzione di fiori con immagini di fonti di luce come fuochi d’artificio e cieli romani cristallini. 

In Water & Light: Instruments of Magic ha invece presentato, alla galleria Playground di Detroit, due serie di opere con Elizabeth Schmuhl, artista che come lei utilizza l’esplorazione lavorando con inchiostri naturali. Curata da Jessie Devereaux, la mostra mette in evidenza l’importanza dell’acqua e della luce, il mondo naturale e i suoi stati in continua evoluzione. Entrambe riconoscono la magia come concetto astratto che esiste attraverso l’esperienza personale e il credo: l’idea del soprannaturale è, dopotutto, una costruzione umana; un tentativo di spiegare l’inspiegabile. La serie di opere in Water & Light contiene materiale vivente che ha subito una trasmutazione attraverso il suo utilizzo come mezzo artistico. 

Infine c’è Pietra Viva, la serie realizzata presso la Fondazione il Bisonte nel 2021, ripresentata durante i 3daysofdesign di Copenaghen nella mostra An Italian Affair curata da Claudia Pignatale di Secondome presso l’Ambasciata Italiana. La serie è ispirata da una citazione di Arthur Rimbaud “Carne, marmo, fiore, Venere, in te credo!“, in relazione a un viaggio compiuto da Marta a Carrara per raccogliere polvere di marmo in cava. Le opere, create utilizzando un inchiostro ottenuto da quella polvere di marmo, sono un’opportunità per esaminare le proprietà dei materiali organici e il modo in cui li percepiamo. Oltre al marmo, Marta ha infatti utilizzato fiori freschi direttamente sulla sua matrice.

Marta Abbott con bacche da inchiostro
Marta Abbott con bacche da inchiostro

L’intervista all’astista Marta Abbott

Repubblica Ceca, Olanda, USA, Italia: che significa avere questa prospettiva multipla sul mondo?
A volte questo panorama aperto, plurale, con tante radici può confondere. Ma fa decisamente parte del mio DNA: per questo il mio approccio è non avere confini, cercare costantemente di sperimentare e studiare mondi nuovi. Di contro ho un rapporto naturale con il mercato estero: ho avuto la possibilità di esporre ad New York, Praga e Detroit.

Come sei approdata a Roma, scegliendo di restarci?
Sono arrivata a Roma da New York perché le mie radici europee mi hanno richiamato da questo lato del mondo. Avevo tra l’altro già studiato restauro a Firenze, ero felice di tornare in Italia. Al tempo neanche facevo l’artista ancora, facevo la floral designer! E poi solita storia: è subentrato l’amore, un figlio…e sono rimasta qui. 

E come sei passata a essere un’artista a tempo pieno?
A trent’anni, non ero ancora a Roma, mi sono dovuta fermare oltre sette mesi per due interventi all’anca. Sicuramente il lavoro di floral designer per un bel po’ non avrei potuto farlo, stando a letto, per cui ho pensato che avrei dovuto darmi un compito, sfruttando uno strumento che amo: la macchina fotografica. Ogni giorno, per sette mesi, mi ero prefissata di scattare una fotografia di qualcosa di bello. Molti dettagli, molti fiori, molto cielo, non potendo uscire se non in giardino. Un processo di ricerca estetica che mi ha consentito di maturare la consapevolezza che avrei voluto fare l’artista come mestiere.

Courtesy Marta Abbot
Courtesy Marta Abbot

La ricerca artistica di Marta Abbott, tra spiritualità e decadenza

Quali sono i tuoi principali temi di ricerca?
Da sempre mi interessano la magia e la spiritualità della natura, la sapienza e le proprietà di fiori e piante. Ma anche i temi del rito, degli incantesimi, del sacro e del profano, degli altari. E della decadenza. Provo a esplorarli utilizzando diverse tecniche, dalla pittura, alla cianotipia, alla ceramica. Per quanto riguarda il tema del tempo, sono una persona molto sentimentale, una parte di me è molto legata al passato. Mi interessa capire come noi esseri umani ci relazioniamo con il suo scorrere, la percezione che ne abbiamo al di là di convenzioni e classificazioni necessarie. Nel lavoro Pietra Viva ad esempio, ho indagato il tema della durata con una miscela di polvere di marmo, conchiglie e fiori. 

A proposito di materiali e responsabilità ecologica: tu usi solo inchiostri naturali e organici, spesso fatti da te. 
Sono molto affascinata dai processi alchemici. Gli inchiostri naturali sono meno stabili di quelli ottenuti grazie alla chimica, motivo per cui reagiscono dando risultati inaspettati, istintivi quasi. La storia di molti colori naturali, del resto, è parte della storia del mondo: pensate al nero ottenuto dalle galle di quercia (palline che si formano in seguito alla deposizione dell’uovo tra foglia e legno da parte di una vespa, poi miscelate a ferro e acqua) o al rosso cocciniglia (ottenuto dall’omonimo insetto sudamericano, il Dactylopius coccus). Per la mia serie blu invece – realizzata per una mostra per Cramum, il progetto non profit che sostiene le eccellenze artistiche in Italia e all’estero – ho utilizzato la cianotipia, un antico metodo di stampa fotografica caratterizzata dal tipico colore blu di Prussia.

Chi sono le tue inspirazioni?
Mia madre, pittrice, che mi ha fatto crescere circondata dall’arte, portandomi da subito nei musei e alle mostre: mi ha insegnato molto. Ammiro poi il lavoro di Kiki Smith, artista statunitense di origini tedesche che esplora il mondo del corpo e della sessualità con la scultura e l’incisione; il fotografo newyorkese Balarama Heller, che reimmagina i simboli archetipici presenti nel mondo naturale indagando la mitologia, la trascendenza, il rituale e la coscienza attraverso immagini che sono narrazioni visive di grande impatto, intime e universali. E Jason Logan, mago dei colori naturali da cui traggo costante ispirazione, founder della Toronto Ink Company. 

Ritratto di Marta Abbot in atelier Eller Studio
Ritratto di Marta Abbot in atelier Eller Studio

Qual è il tuo rapporto con gli strumenti di comunicazione social?
È buono, sarei ipocrita a non dire quanto utili sono come strumenti di connessione, scoperta e divulgazione. La sopracitata Toronto Ink Company, per esempio, l’ho scoperta su Istagram e ci siamo scritti, è stato tutto molto semplice e diretto. La cosa che non sempre mi piace sono i tempi corti del social, e alcune modalità: molti, troppi nuovi trend e poco tempo di riflessione e studio. Ma li uso, servono, è innegabile. 

Sogno nel cassetto: c’è un progetto o un posto (museo o galleria) con cui vorresti avere a che fare nel futuro?
Mi piacerebbe poter fare una mostra ovunque in Giappone. E collaborare con l’Aldrich Contemporary Art Museum, il museo fondato nel 1964 dal collezionista d’arte e stilista Larry Aldrich, uno dei più antichi musei d’arte contemporanea degli Stati Uniti: è una delle poche istituzioni indipendenti del Paese e l’unico museo del Connecticut – lo Stato in cui sono cresciuta – dedicato esclusivamente alla presentazione dell’arte contemporanea. Anche realizzare scenografie per il teatro, questo sì, sarebbe un sogno. 

Il 2024 è stato un anno pieno. Cosa ti aspetti dal 2025?
Vorrei concentrarmi sulla ceramica e sulla scrittura. Per la ceramica, sto lavorando ad una serie di 13 pezzi dedicata agli abiti tradizionali delle 13 regioni della Repubblica Ceca, ovviamente reinterpetati. Per la scrittura invece, ho in cantiere due libri a cui sto lavorando, ma non posso dire molto di più al momento. E una mostra a Milano. Finger crossed!

Giulia Mura

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Giulia Mura

Giulia Mura

Architetto specializzato in museografia ed allestimenti, classe 1983, da anni collabora con il critico Luigi Prestinenza Puglisi presso il laboratorio creativo PresS/Tfactory_AIAC (Associazione Italiana di Architettura e Critica) e la galleria romana Interno14. Assistente universitaria, curatrice e consulente museografica, con…

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