La mostra sul Futurismo a Roma? Propagandistica, pseudostorica e anormale 

Una recensione completa della mostra sul Futurismo alla GNAMC di Roma, firmata dallo storico dell’arte Giancarlo Carpi che fu prima coinvolto e poi fatto fuori dalla mostra più discussa del momento. Una mostra in cui Il Futurismo da una parte non esiste, e dall’altra è strumentalizzato

Se il Governo Meloni voleva una mostra pseudostorica l’ha avuta, con il suo futuro di case studies nelle università straniere. E quanto più successo avrà tanto più ampia sarà la sua manipolazione. È una mostra anormale che incorpora nel suo display cose diverse, dall’appropriazione indebita alla curatela narrativa, dalla censura fino alla manipolazione del Futurismo a scopo politico. Lo mostrerò dal mio punto di vista, di ex insider.  

L’eredità della fotografia cancellata dalla mostra sul Futurismo a Roma 

Quando nella concitata mattina della preview ho visto la gigantesca Fiat del 1913, mi ha colto una certa meraviglia e quasi ho sentito di poter toccare con mano quegli anni, insieme con quell’eccesso che è sostanza della nostra avanguardia, risonante del mondo dei circhi, del vaudeville. Ho poi pensato che nelle fiere dell’epoca v’erano stanze di specchi che moltiplicavano l’immagine e Boccioni nel 1907 aveva realizzato la fotografia Io, noi, Boccioni, che quintuplicava la sua immagine. È noto da almeno cinquant’anni che la pittura futurista di movimento deriva anche dalla cronofotografia di fine Ottocento dell’inglese Eadweard Muybridge e del francese Etienne Jules Marey. Da Il Lutto di Boccioni alla Bambina che corre sul Balcone di Balla (invece nel pannello rimessa a Bragaglia – che troveremo però cinque sale dopo) fino alla frase del manifesto del 1910 e allo sdoppiamento del cavallo nella Città che sale. Di quelle fotografie, che erano state ottenute, e di quella influenza storica, nelle prime sale sul divisionismo, non c’è traccia. “La fotografia non è importante”, mi disse Mazzantini un giorno a febbraio. Non si doveva mostrare il ruolo delle invenzioni tecnico estetiche straniere. Che poi i due primi quadri sulla simultaneità di Severini (Souvenir de voyage, 1910-11) e Boccioni (Visioni simultanee, 1911) siano debitori a Bergson e al Cubismo, è taciuto. Che la smaterializzazione dei corpi si debba anche alla frequentazione dell’esoterismo, è taciuto.  

Storture curatoriali della mostra sul Futurismo a Roma 

Restiamo in quelle sale prefuturiste: sono belle, fin troppo ingombranti in una mostra che conta circa 250 opere futuriste (né pre né post). Però perché la Lampada ad arco di Balla e il Sole di Pellizza sono divisi da quella porta? Hanno allestito in modo narrativo, quella porta è il “portale” verso il futuro, che il visitatore attraversa. È tentazione di ogni curatore forzare le opere d’arte in una narrazione visiva che deprime gli aspetti formali, iconografici, storici, sottoposti alla propria regia che dovrebbe avere effetto sul pubblico. Ma ciò non aveva mai riguardato i quadri così importanti della nostra avanguardia, né è stato fatto da esperti di quei quadri. È pur vero che, al contrario, disporre oggetti non artistici accanto alle opere d’arte rientrerebbe in una pratica di de-feticizzazione del “capolavoro” espressa in teoria e prassi da musei di tutto il mondo almeno negli ultimi quindici anni, come in Rethinking Guernica al Museum Reina Sofia nel 2018. Si è cercato di fare questo? No, perché a febbraio quando era in corso la seconda campagna prestiti, Simongini mi comunica sconcertato un messaggio della Direttrice: “evitiamo disegni”, e poi a maggio mi riferisce “dicono che le opere su carta non contano e sarebbe meglio toglierle”. Volevano solo oli su tela perché più fruibili per il grande pubblico. E questi solo troveremo allestiti con una regolarità di 60 centimetri di distanza che all’occhio configura una stecca di pitture costrette dalle cornici, in totale contrasto con il principio futurista dell’apertura del quadro nello spazio.  

Una mostra fondata sulla decontestualizzazione 

La grande sala futurista: sulla parete a sinistra, la Fiat del 1913 vicino a Bambina Moltiplicato Balcone di Balla, può suggerire l’epoca della tecnica in modo convincente, poi l’Idolo Moderno di Boccioni è in relazione all’automobile come idolo meccanico, anche contestualizzato dal Notturno, quadro dedicato alla “nuova sensibilità notturna data dalla corrente elettrica”. Una bella parete. Senonché l’automobile ferma cozza con il dinamismo del quadro di Balla, che le dipingeva, sì, ma in velocità. Si capisce allora che l’intento era proprio di mostrare le automobili e il resto anche perché il curatore nell’estratto per il sito del Ministero scrive “automobile ruggente […] più bello della Vittoria di Samotracia”, omettendo “che sembra correre sulla mitraglia”. Questo è un problema strutturale della esposizione degli oggetti che avrebbero ispirato i futuristi, come scriveva Boccioni: “Un cavallo in movimento non è un cavallo fermo che si muove, ma è un cavallo in movimento, cioè un’altra cosa, che va concepita ed espressa come una cosa completamente diversa” (1914). La sbandierata “contestualizzazione” tramite la tecnologia d’epoca appare allora una glorificazione della vetrina, una “decontestualizzazione espositiva, con la sua pratica di isolamento, funzionale solo all’ubiquità del valore mercantile per cui l’arte si tramuta in prodotto e in economia” (Celant). Boccioni vedeva il “café-chantant, grammofono, cinematografo, affiches luminose, occultismo [!]” come “manifestazioni antiartistiche della nostra epoca”, cioè radicalmente opposte al quadro a olio borghese al quale voleva sostituire le sculture polimateriche, fatte di materia bruta e pezzi di realtà (una ringhiera). I quadri a olio, le Fiat e Maserati d’epoca, il grammofono, la lampada Anni Trenta, il prodotto Maserati a guida autonoma, presente all’inaugurazione, sono tutti autonomamente fruibili. E la mostra si rivolge al “bambino in cerca della novità tecnologica” come al “bibliofilo accanito” (Simongini).  

La mostra sul Futurismo alla GNAMC, tra tecnologia e propaganda 

Della macchina a guida autonoma ce ne scriveva a luglio “ci sarà un macchina a guida autonoma”: doveva essere proprio nella mostra. Gli specchi alle pareti, allora, “Gli specchi, che rivestono tutti i passaggi, giocano sulla molteplicità dei piani prospettici, […] creando un fantastico gioco di rimandi” (Mazzantini) evocano i passages di Benjamin, dove le merci si riflettono in una fantasmagoria. La citazione da Celant era nel saggio per Post Zang Tumb, Tuuum: Art, Life, Politics Italia 1918-1943. Osanna cita nel suo intervento quella mostra radicale, ma solo per dire che anche Celant si è occupato di Futurismo. Bisogna invece leggere: “il Futurismo sembra tradursi in matrice di quella creatività che, solo decenni dopo, si sarebbe definita come Made in Italy” e ancora, spiega, “rifunzionalizzare tecnologie disponibili per elaborare contenuti o rispondere a necessità inedite”, che è un falso ideologico e propagandistico, come se i futuristi fossero degli ingegneri dediti allo sviluppo del Paese. Ma che perfettamente raccoglie la strana osservazione di Mazzantini durante la riunione del comitato scientifico: “Sa, c’è un problema con il Futurismo perché amavano l’industria, e ora è importante l’ecologia”. Da Osanna passiamo al Ministro Alessandro Giuli: “un nuovo linguaggio dell’arte […] che ancora oggi permane nelle tante imprese che animano il mondo della tecno-scienza e dell’era digitale”. Il riferimento fuorviante è la chiave di lettura più inquietante di una mostra che ha tagliato 250 opere d’arte e molti artisti futuristi per sostituirli con la tecnologia d’epoca. Che si vuole intestare un Futurismo che ha distorto a fini della propria agenda di sviluppo, che per l’occasione si fa erede anche dei gioielli dell’ingegneria italiana. L’Autosole, alla quale è dedicata una mostra che, dice Mazzantini “è un’altra mostra, ma fa parte della mostra futurista”. E così l’approccio futurista alla macchina come potenza alienante è nascosto e dell’attraversamento futurista del prodotto come valore di scambio, feticcio, non è mostrato nulla. Nulla dell’altra faccia della tecno-scienza.  

Il trittico di Previati e la Maserati in mostra alla GNAMC 

Ma spostiamoci vicino a Sviluppo di una bottiglia nello spazio di Boccioni al centro del salone e vediamo. La scultura, centrale ma sperduta e minuscola rispetto allo spazio e alle macchine, dovrebbe immaginosamente incorporare nella sua rotazione tutto quanto le è intorno, appare invece qualcosa di dismesso. Finché a destra scorgiamo la costruzione più ambiziosa, un allestimento narrativo-simbolico che fa perno su La caduta degli angeli di Previati del 1913. Il trittico, enorme e cupo, è anzitutto un oggetto fuori posto nel salone del Futurismo eroico. Si collega dimensionalmente alla Maserati sottostante, rossa, 1934, gioiello del decennio fascista. Lucifero porta il fuoco, la tecnica agli uomini: è la macchia, ed ecco, narrativamente, a destra del quadro, il “parto” di questo accostamento è l’uomo nuovo, l’uomo potenziato dalla tecnica: Dinamismo di un corpo umano di Boccioni, 1913. Peraltro, l’idea del motore è stata con tutta probabilità rubata a Leonardo Clerici, nipote di Marinetti, che aveva presentato il progetto scartato La musa Metallica. L’insieme, d’effetto, è sul filo del Kitsch, anche perché c’è un elemento ulteriore: una frase di Boccioni stampata a grandi lettere sotto il trittico di Previati a fini didattici, in modo del tutto irriguardoso verso la percezione il quadro. Eccoci, dunque alla seconda chiave della mostra, l’essere rivolta a “tutti”, agli scolari e ai “bambini”. Questo obiettivo non è neutro ma, di nuovo, orientato politicamente, sia verso l’elettorato di riferimento dei FDI, sia verso un più generale consenso popolare, sia perché edulcora gli aspetti radicali del Futurismo.  

Una mostra più per la scienza che per l’arte 

Guardiamo ora diritto davanti a noi, dalla scultura di Boccioni, c’è la sala dedicata a Guglielmo Marconi, eletto a padre dell’estetica futurista e della simultaneità. L’immaginazione senza fili di Marinetti è ridotta al telegrafo, invece che riportata all’inchiesta sul verso libero e alla lirica della materia: “facendolo vivere [lo stile] in un certo modo della vita stessa della materia” (Marinetti). La sensazione che ho avuto della sala è stata disturbante. Quando Renata Cristina Mazzantini mesi fa parlò di una mostra “anche per i bambini”, io credevo che ci sarebbe stato un forte apparato didattico e che casomai le automobili avessero lo scopo di attrarli. Non pensavo che l’allestimento stesso, in una certa sua parte, avrebbe assunto sembianze adatte a quel pubblico. Si tratta di una classe delle medie, con degli steakers attaccati alle pareti, con infilata di strumenti scientifici, dal 1907 al 1935 che conducono al faccione un po’ infantile di Marconi su quella in fondo. Ed è anche, soprattutto, un altare della tecno-scienza, fatto per istruire gli studenti perché la conoscenza scientifica, anziché quella artistica, è importante per il futuro del Pease. Il Futurismo da una parte non esiste – dov’è la nota foto di Marinetti alla radio, dove è il manifesto della Radia? – dall’altra è strumentalizzato, dato che l’autore del ritratto di Marconi, Alessandro Bruschetti, è lì solo perché gli capitò di ritrarre lo scienziato, quando invece i suoi lavori migliori, gli aeropaesaggi umbri, sono stati tolti.  

La storia scardinata e lo spettro del fascismo 

Ma la manipolazione più sottile sta nel voler considerare Marconi un “futurista”: “Nei fatti e nella visione avveniristica, Marconi è stato senza dubbio una sorta di futurista”, inducendo la convinzione errata che l’avanguardia avesse intenti tecnico-scientifici (e si tratta di una sala didattica!). Che poi il quadro sia del 1939 ed irrompa, insieme alla Maserati del 1934 e al Previati del 1913 nel salone futurista, dà la misura non solo di uno scardinamento dalla storia ma anche della volontà che c’è stata di mettere questi segni indiretti del Fascismo a diretto contatto con il periodo più nobile dell’arte futurista. Non voglio dire che insieme al quadro di Bruschetti qualcuno possa sentire riecheggiare il libro di Buccafusca citato nel catalogo della Quadriennale del 1939 Gli studenti fascisti cantano così. Il recente articolo del New York Times però allude a una associazione tra quel ritratto e Mussolini. La scritta nera Il Tempo del Futurismo in copertina al catalogo fa pensare male.  

Le sale sugli Anni Dieci della mostra alla GNAMC 

Nelle sale successive dei primi Anni Dieci, incontriamo l’accostamento per sinestesia tra La rivolta di Russolo e gli intonarumori ricostruiti, scenografico ma sostenibile. Nella sala seguente, però, ci sono di nuovo gli intonarumori, uno rivolto come un amplificatore verso Cavallo + cavaliere + caseggiato di Boccioni e un altro in sbagliata assonanza con le velocità di Balla. L’impressione è che non avessero sculture e dovessero riempire. Peraltro, se l’oggetto futurista e la tecnologia d’epoca sono sullo stesso piano come qui, si scopre la forzatura visiva dell’aver voluto a tutti i costi accostare quei variegati a volte passatisti involucri ai quadri per imporre la tesi che questi erano radicalmente ispirati dalla scienza. Ecco in un angolo le due velocità di Balla e alcuni pastelli: quella sequenziale è inopinatamente accostata (a sinistra) al ponte della velocità (che anticipa lo stile analogico) e ancora a sinistra a quella con la strada sviluppata in profondità. Questa ha una straordinaria cornice originale, non valorizzata, e richiama ovviamente un’altra velocità con strada in profondità che è a destra della velocità sequenziale: non le sanno distinguere e ordinare. Comunque, sconcerta una presentazione così modesta dell’apice dell’arte di Balla, nonostante a questa mostra abbia lavorato un Ministero. Tentai di insistere per la velocità del Mart e per quella di Milano, senza esito. Quella a Torino non l’anno chiesta fino a fine 2023 su mio consiglio, e non è stata ottenuta. Sparpagliate le opere in tre sale non consecutive – con Lampada ad arco nella prima – la ricerca artistica di Giacomo Balla nel Futurismo eroico non è possibile comprenderla. Si tratta di un balzo indietro di 40 anni nella presentazione di questo sommo pittore, che in Futurismo & Futurismi (1986) era messo prima di Boccioni. Nell’ultimo corridoio Anni Dieci c’è un inframezzo dedicato tutto a Romolo Romani, con opere dal 1911, doveva stare nel salone, la ragione è che ne hanno presi troppi e non sapevano dove metterli. Anche il Prampolini basato sulla compenetrazione figura ambiente (Figura + Finestra) non ha senso se non tematico (la donna) vicino al Ritratto di Silvia dell’ultimo Boccioni cezanniano. Nelle bacheche sottostanti ci sono i libri di Marinetti. Ma perché Zang Tumb Tuuum, il libro più famoso del Futurismo non è nel salone? Forse per il tema bellico. Accanto, Gli aeropoeti futuristi dedicano al Duce il poema di torre viscosa, che è del 1938, perché sta qui, dentro il Futurismo eroico? Sopra, una debole matita di Delle Site Anni Trenta che è sopravvissuta ai tagli perché di un amico del curatore.  

Una manipolazione della storia 

Ma ecco l’inizio della grande sezione sulla “Ricostruzione futurista dell’universo”, perno ideale del discorso ministeriale. Qui avviene una manipolazione della storia d’arte e del pubblico della mostra. Come antipasto, dopo il pannello esplicativo, l’infilata dei tre quadri interventisti di Balla e poi Velo di Vedova e Paesaggio Guerresco di Depero – scelto da Maurizio Scudiero – che sono i capolavori dello stile astratto-analogico del manifesto del 1915. Tre dedicati all’intervento dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale, due alla guerra, ma viene taciuto. Né viene, perciò, neanche spiegato il valore di arte-vita di quelle astrazioni niente affatto formalistiche. Ma andiamo al punto: accanto al pannello esplicativo è attaccato al muro anche il manifesto del 1915, però c’è solo una pagina. Nella retorica ministeriale portata avanti da Simongini la mostra tratta di “quella macchinizzazione dell’umano e umanizzazione della macchina (oggi si parla di veicoli in grado di adattarsi agli stati d’animo e alla condizioni psicofisiche dei passeggeri) affrontate per la prima volta proprio dai futuristi”. Si tratta di un fraintendimento coscientemente perpetrato. Dal Manifesto tecnico della pittura del 1910: “Il dolore di un uomo è interessante, per noi, quanto quello di una lampada elettrica, che soffre, e spasima, e grida con le più strazianti espressioni di dolore” e poi Marinetti nel supplemento al manifesto tecnico della letteratura: “Non si tratta di rendere i drammi della materia umanizzata. È la solidità di una lastra d’acciaio, che c’interessa per sé stessa, cioè l’alleanza incomprensibile e inumana delle sue molecole o dei suoi elettroni, che si oppongono, per esempio, alla penetrazione di un obice”. Nel Futurismo l’“umanizzazione” della materia e delle macchine serve a far risaltare la potenza negativa del non umano, così come il verbo all’infinito negava il soggetto, non una trasformazione delle macchine in entità sensibili ai bisogni umani.  

Informazioni errate al pubblico 

Ma vediamo che cosa succede: leggiamo nel pannello esplicativo che cita parte del manifesto: “Troveremo degli equivalenti astratti di tutte le forme dell’universo, poi li combineremo insieme secondo i capricci della nostra ispirazione per formare dei complessi plastici che metteremo in moto” e, attenzione, scrive Simongini o chi per lui “ma poi non realizzati nella loro completezza per i limiti tecnologici dell’epoca”. Invece i quattro complessi plastici che Balla e Depero realizzarono sono riprodotti in fotografia nelle pagine nascoste del manifesto. Così, il pubblico che legge e non vede viene manipolato e pensa, secondo la narrazione ministeriale della mostra, che stessero provando a realizzare nel 1915 gli attuali robot umanizzati e solo un limite tecnico li ha fermati. I complessi plastici non sono prototipi di “robot umanizzati”, bensì una forma tra le prime in Europa di arte oggettuale, che per Depero dava conto dell’idea di creare l’“organismo autonomo”, sulla scorta di Boccioni, che lo intendeva come feticcio: “Il viaggio a Taiti di Gauguin, la comparsa degli idoli e dei feticci del Centro-Africa negli ateliers dei nostri amici di Montmartre e di Montparnasse, sono una fatalità storica nel campo di una sensibilità europea, come nell’organismo di un popolo in decadenza l’invasione di una razza barbara!”; e ancora: “La pittura e la scultura nelle epoche primordiali si preoccupano di suggestionare e suggerire e lo fanno con qualsiasi mezzo […]. In queste epoche felici non si conosce la parola arte […]” (Dinamismo Plastico, 1914). Depero cercherà di realizzare i complessi plastici anche dopo il 1915 con le sue macchine teatrali – senza curarsi dei “limiti della tecnologia dell’epoca”: “Ebbi un lampo di intuizione: applicate le mie ultime soluzioni plastiche al teatro delle marionette. Liberandomi dell’elemento uomo conseguii la massima autonomia e la massima libertà nelle mie amatissime costruzioni viventi”, sono I balli plastici (1918). Mentre negli stessi anni andava dipingendo Donna seduta e bambola in vetrina e La grande selvaggia, ovvero, idoli e feticci dove già intuiva il tema delle merci.  

La stanzetta futurista e il depotenziamento di Depero 

E così torniamo alla mostra, nella saletta a destra del corridoio della sezione, si incontra una specie di stanzetta dei bambini, opera, immagino della direttrice ex arredatrice Mazzantini. Qui si è presa la libertà creativa di comporre una stanzetta futurista usando la porta dello studio di Balla, una sedia e una testata di Antonio Rubino – ottenuti ingannando il sottoscritto – un paesaggio di Dottori usato come finestra, e, il quadro Bambola blu di Depero, del 1917, tra la porta e la sedia, come un quadro appeso, vieppiù, essendo una camera per bambini, come una bambola. Eccolo l’esito del “complesso plastico” di Depero, innocua bambolina che confonde iconografia e quadro per il piacere degli spettatori anche più piccoli. L’idea del feticcio tribale, “organismo autonomo” perché pseudo vivente, è nascosta da questo allestimento creativo con opere altrui, che distorce ideologicamente la storia dell’arte. E del percorso artistico di Depero dal 1915 al 1920, non si comprende nulla.  

Grandi assenti della mostra 

Nella sala precedente, si poteva anche osservare, appeso al lato corto del framezzo, l’unico lavoro di Francesco Cangiullo, il solo per rappresentare l’intero genere delle tavole parolibere, evidentemente ritenuto poco significativo per il pubblico. La sezione mostra poi quadri del periodo 1915-1919 – tra i quali due Primo Conti ottenuti dando fee alla fondazione mentre si diceva ad altre che i fee non si potevano dare. Peccato che di nuovo le opere degli artisti siano sparpagliate un po’ a caso, come Baldessari, in un caso “arredato” sopra un tappeto, o Prampolini che non sembra esistere fino agli Anni Trenta se non per il gran quadro di arte meccanica, o il polimaterico di Zatkova depotenziato da un bozzetto d’altro autore intitolato Espansione Primavera. In fondo a destra, ecco anche Ritratto Doppio di Marinetti di Fortunato Depero, quadro che, nel progetto inziale, avrebbe dovuto collegarsi alle tarsie seriali straordinariamente anticipatrici della serialità pop come esito della moltiplicazione ottica futurista. Ma la tarsia è stata eliminata perché di un Archivio malvisto. E così tutto quel pezzo di Futurismo non c’è.  

L’appropriazione indebita del lavoro altrui 

Arriviamo nell’ultima sala che è dedicata all’architettura. Sulla sinistra ecco un debole acquarello di Marchi donato al Metropolitan negli Anni Ottanta, costatoci chissà quanto. Perché prenderlo quando a Roma ce ne era uno superiore, esposto al Guggenheim nel 2014? Perché così Osanna e gli altri possono dire di aver avuto in prestito ben due pezzi dal Metropolitan. Ecco di nuovo Depero, con il Padiglione per matite (1925), opera da me espressamente richiesta sostituendo altre dal Mart già ottenute, e poi il fiore futurista, e i giocattoli, e tutto un pullulare di opere che erano parte della mia sezione che mostrano l’appropriazione indebita del mio lavoro. Depero aveva ideato quello e altri padiglioni secondo “elementi che si possono intelligentemente estrarre dalla forma del prodotto che contengono”, invece, è accostato al film Metropolis come fosse un grattacielo, fuorviando senza rispetto dell’opera, per essere più comprensibili al pubblico. La foto del padiglione effettivamente realizzato nel 1926, Treves e Bestetti-Tumminelli, che pure avevo scelta è dispersa nella lunga bacheca sale più avanti. Nel pannello si parla di nuovo di “progettualità” e di una vicinanza alla Pop Art: “oggetti dilatati di scala, anticipando in qualche modo la successiva Pop Art”. Non commentando “in qualche modo”, commento invece che il testo è sbagliato, perché i padiglioni sono un esito della ricostruzione futurista dell’universo e derivano filologicamente dal “villaggio futurista”: come la natura veniva ricostruita con stile astratto analogico (i fiori di Balla) così il padiglione viene ricostruito sulla forma del prodotto, anticipando gli ecosistemi delle merci in arte ben oltre la Pop Art. “Le vetrine delle maggior vie di lusso del mondo, sono la maggior parte futuriste […] torri di libri, paesaggi di cravatte, foreste e monumenti di matite”. Ma tali riflessioni sulla natura che diviene merce, che erano illustrate dalla mia sezione e sono state parte del lavoro di Depero, sarebbero state troppo disturbanti per un pubblico che doveva vedere i futuristi come predecessori dei brand del Made in Italy, dentro i limiti di una comfort zone. Scriveva Depero nel 1937: “L’epoca moderna è predominata dal materialismo quotidiano, dalle necessità pratiche o di prima urgenza per la vita, dalla lotta per il pane quotidiano e dalla concorrenza dei prodotti, materie e fabbisogni commerciali ed industriali diventano giornalmente assillanti”.  

Il Futurismo e la tecnica  

Lo snodo con la cronologia del Futurismo e i prodotti tecnologici (e di design) d’epoca, dalla Olivetti al grammofono alla lampada, al di sotto è il capolavoro della mostra. Le opere dell’arte sono sparite, l’influenza della tecnologia sulla storia del Futurismo dimostrata per imposizione ministeriale. La cronologia contiene perfino qualche foto di questi artisti, non visibili altrove nella mostra. Non è strano che non ci sia il Manifesto futurista della Scienza (1917), forse perché c’è scritto: “Il cosiddetto progresso scientifico ha per funzione di farci capire sempre meno la bolgia di fenomeni in mezzo ai quali noi mangiamo, dormiamo, lavoriamo […]. Il fine supremo della scienza sarebbe, ipoteticamente, di non farci capire più niente: rivolgere la faccia dell’umanità verso il mistero totale”. C’è invece un estratto da Boccioni da Dinamismo Plastico: “La simultaneità è per noi l’esaltazione lirica, la plastica manifestazione di un nuovo assoluto: la velocità; di un nuovo e meraviglioso spettacolo: la vita moderna; di una nuova febbre: la scoperta scientifica”. E mentre il “noi” pronunciato da Boccioni (morto nel 1916) diventa la voce dell’intera storia del Futurismo le sue parole “scoperta scientifica” sono fatte passare per tecnologia/prodotto, cioè scienza applicata, appunto “tecno-scienza”.      

Il tempo del Futurismo 1909 -1924, Installation View, Ph LP
Il tempo del Futurismo 1909 -1924, Installation View, Ph LP

Le censure ai Manifesti del Futurismo 

Ed eccoci all’Arte Meccanica. Molto istruttiva. Innanzitutto, cinque importanti quadri del periodo sono stati allestiti in una specie di sottoscala. La geometria della voluttà di Prampolini (collezione Giancarlo e Danna Olgiati Lugano) benché bello – risulta tra i quadri scambiati con la testa di Dambruoso – non dice nulla del periodo caprese, quando Prampolini ebbe l’idea del nuovo stile. Di Vinicio Paladini, firmatario con Pannaggi del primo manifesto, non c’è traccia, né come autore – essendo un quadro disponibile di una collezione avversata – né con il disegno che pubblicò nel manifesto. Vinicio Paladini era comunista e per lui la meccanizzazione dell’uomo era presa di possesso dei mezzi di produzione. Ma il manifesto è censurato anche in altri punti, insieme all’ennesimo richiamo alla macchina come feticcio e idolo: “le belle macchine ci hanno circondati, si sono chinate su di noi amorevolmente, e noi selvaggi e istintivi scopritori d’ogni mistero, ci siamo lasciati prendere nel loro bizzarro e frenetico girotondo”, “Invaghiti, le possedemmo virilmente, voluttuosamente”. Alla parete opposta dei quattro quadri, ecco un’altra metamorfosi infantile della mostra, con i bambolotti di Prampolini e un arazzo di Depero, guerra-festa, che edulcora il tema. Vero che i giocattoli dei futuristi erano guerreschi, ma la frase del manifesto del 1915 “giocattoli che abitueranno il bambino […] al coraggio fisico, alla lotta e alla GUERRA (mediante giocattoli enormi che agiranno all’aperto, pericolosi, aggressivi”, è stata censurata qualche sala prima.  

Caos curatoriale e allestitivo 

Andando avanti incontriamo la parte che nelle intenzioni di Mazzantini dovrebbe mostrare l’interdisciplinarietà del Futurismo: un lungo corridoio con a sinistra i manifesti pubblicitari, a destra una lunghissima bacheca e due ingressi a salette che proiettano i film futuristi. Dunque, tre elementi allestitivi ben distinti che, come il resto della mostra con i quadri alle pareti candide, vogliono comunicare ordine e chiarezza, mentre al loro interno regnano disordine e semplificazione; però non importa, perché difficilmente i non esperti se ne accorgeranno. Il caos cronologico e tipologico – dovremmo essere negli Anni Venti – raggiunge il massimo con Thais del 1917 e Vitesse del 1933 (nel film si vedono delle aerosculture…) e, nella bacheca, davvero un po’ di tutto: dai libri di latta Anni Trenta tristemente sotto vetro – quando la loro collocazione sarebbe ovviamente con l’aeropittura – a due fotografie di Anton Giulio Bragaglia, a un disegnino di Balla per casa Lowenstein del 1912 c., al fumetto Anni Settanta di Andrea Pazienza, alle foto di mimetismo di navi militari della Ansaldo, che erano state scelte da me per il legame con le fotografie di camuffamento di oggetti di Tato, poi tolte, al testo della conferenza “arte astratta e concreta”. Inoltre, l’intera parte sulla pubblicità non ha pannello esplicativo: credo sia il segno della mia diffida. Al suo posto frasi mirabolanti come “l’arte del futuro sarà potentemente pubblicitaria” e “gli uomini del futuro parleranno con telefoni senza fili”.   

Gli artisti futuristi travisati dalla mostra alla GNAMC 

A ben guardare, poi, i manifesti della donna futurista e della lussuria, che erano nella lista trasporti pubblica, sono stati tolti. La parete sulla pubblicità inizia da Leonetto Cappiello che influenza Depero – altra conoscenza rubata – ma poi ridistribuisce i prodotti umanizzati di Depero insieme ai manifesti in stile futurista in un gran caos. Prima di Cappiello, che compenetra prodotto e uomo, Depero aveva usato la compenetrazione tra uomo e ambiente, come gli altri futuristi negli Anni Dieci, e perciò riesce a cogliere l’idea di Cappiello e a svilupparla. Questo filo conduttore era mostrato, ma pare che al Ministero, se il tema non serve, non interessi neanche mostrare la genialità dei nostri artisti. Qui Depero capisce che l’“organismo autonomo” di boccioniana memoria, poi realizzato come complesso plastico, è il prodotto in sé, perché le merci sono autonome, sono sacre, feticci pseudo viventi: “io paragono (non scandalizzatevi) il cartellone al quadro sacro dei secoli scorsi”, “carissimi industriali, non solo l’immagine sacra dei vostri prodotti, vi faremo, cioè il cartello”. Questo accadde non la ricerca sul complesso plastico come anticipazione della AI bloccata dai limiti scientifici dell’epoca. La fusione uomo macchina per Depero, a questa altezza, è figlia dell’angoscia dell’epoca: “eccovi una nuova macchina vista dall’alto, al primo sguardo assomiglia ad un mollusco corazzato di acciaio, massiccio e guerriero […] Guardatelo! Non vi pare un neonato liscio, turgido, laccato esempio eccezionale di una nuova era? O un mostro completo e risolto uscito dalle infernali officine della meccanica di oggi?” Depero vuole perciò diventare un artista-azienda (logo Depero). All’appropriatore indebito Massimo Osanna faccio presente che così Depero non anticipa un Pininfarina o altro, ma radicalmente il suo prodotto (dal giocattolo alla tarsia) è ancora opera d’arte, che forza i confini ontologici della definizione. Come quando aveva mandato un quadro-cartello alla Biennale. Se anticipa qualcuno, anticipa il nuovo pop Anni Novanta.   

I banali accostamenti cromatici 

Nella seconda e terza sala dell’Arte Meccanica incontriamo quattro quadri forzati in un accostamento cromatico sul blu a ripresa di un Depero blu al centro dell’altra parete: immagino opera di Mazzantini (così la gente qualcosa sente, avrà pensato). Poi un accostamento tra l’importante Idolo Meccanico di Fillia e una tarda ripresa di Russolo Anni Venti, foriero solo di incompetenza. Un riuscito accostamento tra Il trittico della velocità di Dottori e le frecce della vita di Balla (che con la sua cornice aperta sullo spazio ci ricorda come questa invenzione meravigliosa del Futurismo non sia stata trattata). L’unico pezzo dedicato al teatro, una scenografia di Prampolini, è accostato cromaticamente, sul violetto, perché altro non si sapeva fare. Il Depero newyorkese non c’è perché le due opere e i documenti erano di proprietà di collezioni avversate. Si trova infine l’accostamento eseguito in base alla dimensione e forma rettangolare dei quadri tra Pannaggi e Farfa. Ah, abbiamo anche attraversato il corridoio dove c’è l’istallazione luminosa che, con sfregio assoluto per Forme uniche della continuità dello spazio, era in accostamento narrativo tra l’uomo nuovo di Boccioni e la AI. Come noto, la scultura è stata ritirata.    

Aeropittura e confusione 

Si attraversa lo strano snodo che conduce all’aeropittura. Tra alcuni segni del Fascismo, Il Profilo continuo di Bertelli, l’Accademico d’Italia di Regina e il Colosseo di Tato, alcuni pezzi di arte sacra ottenuti ingannando Massimo Duranti, e immagini fantastiche di Crali, Uomo e cosmo, o anche il bel Aeropittura di Fillia: la sala è molto confusa. Un quadro importante come Cime arte di solitudine di Benedetta non è valorizzato. Molti dei quadri qui sarebbero stati meglio vicino all’Idealismo Cosmico. Ed ecco il salone, con il grande giocattolo rosso, l’idrovolante, al quale è dedicato un intero pannello. L’imposizione dell’oggetto infantile è un esercizio di soft power, per mole e ingombro plastico. Tra gli accostamenti falliti un circumvisionista napoletano materico vicino a prospettive di volo di Tato, tre Dottori divisi da una porta, e una insistenza sulle forme circolari tra Thayaht (un timone) Korompay (un motore) e Di Bosso (il quadro) che mi lascia indeciso. Di nuovo, con la tavola circolare di Di Bosso, rispunta il tema del superamento della forma quadro, di cui non si è detta una parola. La scultura è inesistente, ce ne è una perché altre due importanti erano di collezioni avversate. Complessivamente la sala, che vorrebbe essere idilliaca, massimo punto dell’edulcorazione preventiva ideata dal Ministero – dà anche un senso di vuoto. Mi trovavo lì la mattina della Vigilia di Natale con una giornalista del Tg 24 Rai, che mi aveva riconosciuto. Dopo averla accompagnata per la mostra con alcuni amici, arrivati a quel punto aveva capito meglio di me: “Loro vogliono far vedere che va tutto bene, che c’è sicurezza e ottimismo, può essere un primo passo” – “Un primo passo?” “Per avvicinare la gente all’arte” – “Ma dottoressa il fine non giustifica i mezzi, guardi giudicherà la storia” e così via concordando, se non totalmente sul giudizio, sulla manipolazione. Mesi fa Abbate ha scritto “E forse perfino, andando oltre Balla, Boccioni, Russolo, Sant’Elia, anche il progetto di “rallegramento dell’universo” dell’ondata futurista successiva che mostra in prima fila Depero, Prampolini e nuovamente Balla, non è altro che un possibile Campo Hobbit”: quasi incredibilmente queste parole ora appaiono sensate. Su una parete troneggia l’Aeropittura di Guerra di Tato (courtesy Galleria Russo), di bibliografia recente; invece, è stata tolta l’Aeropittura esposta alla Biennale del 1933. Ed ecco l’Idealismo Cosmico, sezione che mostra particolarmente i segni dell’appropriatore indebito Gabriele Simongini, visto che fu concepita da Andrea Baffoni e che la parte sugli astrattisti di Como è stata voluta da me. Radice e Rho erano pensati per introdurre all’astrattismo del dopoguerra, invece portano da un’altra parte.  

Il tempo del Futurismo 1909 -1924, Installation View, Ph LP
Il tempo del Futurismo 1909 -1924, Installation View, Ph LP

Le ultime sale della mostra sul Futurismo a Roma 

Proseguendo a destra il percorso dalla sala dell’Idealismo cosmico si entra nella sala con il pannello sull’eredità del Futurismo. In esso Simongini mette un po’ di tutto da Pascali come erede della Ricostruzione futurista (?), alla Pop Art italiana ridotta a omaggio iconico (e la serialità?). Ecco la nuova accelerazione popolare populista, il riferimento, nel pannello a fumetto di Andrea Pazienza – posizionato però nella bacheca sale prima. Per Titina Maselli neanche una parola. È citato anche Gilardi, che però non c’è, forse avranno visto che non stava bene – per il loro scopo – e con la solita prepotenza lo hanno tolto. La stessa violenza e cialtroneria di Stato ricordo, con la quale hanno chiesto 250 opere a privati cittadini bloccandole per mesi per poi disdirle. La saletta, che contempla anche la forzatura didattica di due fiori futuristi Anni Dieci di Balla vicino a Marotta, dà una sensazione da museo di provincia, sensata solo come relitto del secondo dopoguerra. La sala sui cinetici e Fluxus invece è bella e ordinata e quella con Tinguely è forse l’unico punto che trasmette qualcosa di non viziato sul rapporto uomo macchina, con qualcosa di residuale. La sensazione svanisce entrando nell’ultima sala, con il mare di Pascali Anni Sessanta, sormontato e scenograficamente orchestrato con la raggiera di Dorazio del 1988. Al lato Burri e un reticolo. È pura scenografia, sfondo. Ma anche promessa di un futuro luminoso. Di nuovo è un “ambiente” costruito con arbitrio, che possiamo interpretate tornando alle parole della appropriatrice Mazzantini durante la riunione di marzo: “Vede, c’è un problema con il Futurismo, perché amavano l’industria, e oggi invece vanno le energie pulite”. Di nuovo storia dell’arte montata a fini politici, la ricostruzione futurista dell’universo ha avuto questo esito: le sue energie pulite. 

Giancarlo Carpi 

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