L’arte contemporanea è sempre più vuota (tutta colpa di Duchamp)

Cosa rimarrà dell’arte? Dopo la scomparsa dell’opera, scompariranno anche la mostra e l’artista? Una riflessione di Pino Boresta sull’arte del futuro

Dopo Duchamp ho capito che essere un artista ha più a che vedere con uno stile di vita e un atteggiamento che con la produzione di oggetti”
Ai Weiwei

Allora, tutta colpa non di Freud questa volta, ma di Duchamp. Non vi è dubbio che quello di comprare opere d’arte evanescenti, e il più immateriali possibili, sia diventata una sorta di moda. Ma chi ha cominciato? Gino De Dominicis con il suo Cubo invisibile? O Marcel Duchamp prima di Gino con i suoi bizzarri Ready Made? Non dobbiamo dimenticarci di Yves Klein con la sua brillante idea di vendere spazi vuoti della città di Anversa in cambio di oro puro. Né possiamo non ricordare il nostro amato Piero Manzoni con la sua performance Divorare l’arte. C’è poi Vito Acconci con la sua performance Seedbed, in cui nascosto sotto un pavimento inclinato di una stanza vuota si masturba. E quindi, l’arte più che Povera oserei dire quasi immateriale di Emilio Prini. Più recentemente mi viene da pensare alla Biennale di Venezia del 2005, con l’inaspettata piacevole performance di Tino Sehgal nella quale mi sono trovato immerso personalmente entrando nel Padiglione tedesco, dove i custodi venendomi incontro canticchiavano il refrain “This is contemporary, so contemporary”. Ed infine gli odierni e molto discussi NFT. Ho citato a memoria solo alcune opere ed artisti di quelli che ricordavo, in quanto non voglio fare qui un elenco esaustivo e approfondito sulla questione, compito che lascio volentieri a qualche storico dell’arte. Ma qualche riflessione credo che meriti la mia penna.

Vuoto a rendere o vuoto a perdere?

Forse qualcuno non se ne è accorto, ma sembra che in questo nostro mondo impazzito sia nata una sorta di gara a comprare l’opera più vuota, più pazza, più inutile ed inesistente che possa mai essere stata pensata, meglio se messa all’incanto da qualche importante casa d’aste. Comprare opere di artisti viventi a prezzi spropositati, molto oltre il loro valore reale, è questa la nuova tendenza. Qualcuno considera questo il passaporto per passare alla storia, e purtroppo, potrebbe aver ragione. Ma mi chiedo io, fino a che punto finiremo per spingerci? È veramente necessario che l’arte vada in questa direzione? Questa, non è una variazione genetica dell’opera, ma piuttosto una variazione fisica, un vuoto quantistico, dove l’opera dell’artista in realtà non esiste, ma diventa molto chic comprare. Possiamo pertanto considerare questo una fuga in avanti, una sorta di salto quantico, quello di acquisire un’opera d’arte non visibile neanche in fotografia, la cui importanza è quella di aver speso cifre esorbitanti per assicurarsela? Ma così facendo non corriamo il rischio che, non essendo essenziale che un’opera sia tangibile, visibile, venga meno l’idea stessa di opera, e svanisca così anche l’urgenza di fare delle mostre? E con queste, probabilmente anche la necessità che esse siano pensate da un artista in carne ed ossa? Il fisico teorico Daniel Harlow ha detto: “In senso classico, il vuoto è noioso: non succede nulla”, ma in senso avanguardistico, forse no? Io spero solo che tutto questo vuoto sia almeno un vuoto a rendere e non un vuoto a perdere, ma non sono molto ottimista al riguardo.

Chi è il Grande Architetto?

Non giunge anche a voi il sospetto che tutti questi giochetti, comprese le opere che si autodistruggono durante le aste, siano solo astuzie funzionali a dare più importanza a quelle che poi sono veramente le opere importanti ed indispensabili? Opere che puoi apprezzare per il loro significato intrinseco, e quindi bellezza. Anche se io di queste opere non ne vedo molte, ma semplicemente perché non danno spazio alle mie creazioni. E quindi? Direte voi. Esatto! Dico io, avete capito bene, sono io il “Grande Architetto” di tutto ciò, e voi dovete solo aspettare la vostra occasione per fare qualche buon affare. Comunque, a latere di questa esternazione ironica, ma utile per uscirne fuori in qualche modo. Non siete un minimo preoccupati anche voi di come saranno le mostre e gli eventi del futuro? Un futuro distopico, dove non ci sarà bisogno di artisti e dove le opere in mostra saranno immateriali, quasi inesistenti? O del tutto irreali, immaginarie, ed allora cosa andremo a guardare?

Tentiamo di fare un’analisi: niente artisti, niente opere, niente curatori ma solo tanti critici e tanto business e tante persone che speculano intorno all’arte. È questo quello che ci aspetta? Ma il pubblico cosa andrà a vedere? Il popolare carismatico critico à la page con la sua bella parlantina? Non avete paura che l’arte finisca per non incarnare più nessun valore culturale a causa di tutto ciò che di sbagliato le gira intorno e che sta trasformandola in qualcosa di diverso, qualcosa che con l’opera d’arte e con l’artista non ha più nulla a che fare?

Gli artisti astuti; quelli a cui più che creare, piace essere adorati, lo hanno capito, e poiché non sono degli stolti, e a nessuno piace lavorare per non ottenere niente in cambio, che giustifichi la fatica fatta, si sono messi a fare altre cose, altre “azioni utili” che richiedono meno impegno, meno travaglio interiore e fruttano molto di più. “Cosa sto a fare allo studio, a lavorare per cosa? Se è più importante andare ad una cena, a un vernissage o ancora meglio ad un importante evento dove incontrare le persone giuste, quelle che contano veramente”. Così mi ha detto una volta un mio amico artista.

Il vuoto dell’opera o l’opera nel vuoto?

Ecco qui sotto una estemporanea nota di biasimo che ho scritto pochi giorni fa, e che mi ha spinto a cercare vecchi appunti per dare corpo a questo mio articolo:

  • Sono annoiato da queste opere vuote e senza un reale motivo di esistere, se non quello di alimentare la continua ricerca del sensazionalismo all’interno dell’arte.
  • Opere che non ci raccontano nulla dell’artista che le crea (sempre che si possa definire creare quello che fanno) se non la sua sfacciata furbizia e la sua grande capacità nelle pubbliche relazioni.
  • Opere che non hanno più una vera arte poetica se non quella commerciale, ma non credo che questa possa essere definita poetica.
  • Opere che non aggiungono nulla formalmente, né tanto meno concettualmente, al dibattito artistico.
  • Opere che non significano nulla socialmente se non ricordarci che decide ancora e sempre chi comanda, chi governa e domina un sistema.
  • Opere che continuano a sfruttare meccanismi svelati e ridicolizzati già dai primi anni del Novecento se non prima, e che hanno ottenuto, forse inaspettatamente anche per chi li ha pensati, un notevole riscontro negli anni a seguire.
  • Opere funzionali solo al sistema dell’arte nella sua degenerazione più sfacciata, che ruota esclusivamente intorno al valore mercantile che queste acquisiscono, ma sarebbe più giusto dire, che a queste viene impropriamente attribuito.
  • Opere che nascono più che altro per divertirci (pe facce ride) per dare spettacolo in questa nostra società dello spettacolo molto ben profetizzata da Guy Debord, e dalla quale voleva metterci in guardia. Ottenendo purtroppo come risultato solo quello di legittimare coloro che lui odiava, grazie al ribaltamento che quest’ultimi riusciranno a fare delle sue stesse asserzioni. Dichiarazioni che non erano solo dei moniti, ma veri e propri capi d’accusa circostanziati e molto ben sottolineati. Avvertimenti in alcuni casi urlati a gran voce contro quel tipo di società che lui aveva preconizzato, ma che ahimè sono caduti nel vuoto. Un vuoto pneumatico, proprio quel vuoto di cui stiamo parlando? E mi viene il sospetto che questo, lui se lo aspettasse, e per questo, prese la decisione di andarsene come ha fatto.
  • Opere che cercano lo scandalo come primo obbiettivo, perché sono così banali ed inutili, che solo in questo modo possono avere la possibilità di imporsi all’attenzione del pubblico, e soprattutto, del grande pubblico che non possiede le difese culturali per difendersi in maniera adeguata senza rischiare di fare la figura dell’ignorante ed incompetente totale.
  • Opere che nascono con lo scopo di essere eclatanti per fare gli articoloni sui giornali, in modo che ne parlino i notiziari e i telegiornali, ma il cui vero valore è praticamente pari a zero.
  • Opere vuote anche quando mostrano qualcosa. Ed allora mettiamoci tutti a fare i bravi vetrinisti invece che gli artisti. “Vetrinisti”, così in una intervista ha definito Philippe Daverio alcuni artisti. Ma per uno che eccelle, tutti gli altri epigoni che vorrebbero raggiungere in questo modo il successo immediato, fanno e me veramente pena.
  • Opere che, se poi vai a scavare e cercare bene nel passato ti accorgi che sono in realtà già state fatte, dette e mostrate.
  • Opere che nascono con la sola ambizione di voler passare alla storia, ma quale storia? Dico io: La storia stilata dai vincitori? La storia voluta da quelli che comandano? La storia scritta da quelli che muovono i fili dei burattini? Ma chi sono i burattini? Sono tutti quelli che cadono nel tranello e credono a quello che gli viene detto senza riflettere e porsi delle vere domande. Persone che non hanno a cuore, e a cui non interessa veramente, il bene e la bellezza del mondo dell’arte. E quando dico bellezza non intendo la bellezza formale ma: la bellezza ideologica, la bellezza sociale, la bellezza scientifica, la bellezza lirica. Una volta le avanguardie avevano delle teorie giuste o sbagliate che fossero, ora l’unica dottrina che conta è quella del denaro, quella di un falso valore finanziario, un valore finto e il più delle volte truccato.

Dico quello che sento, ma poi mi pento

Ho messo giù di getto queste mie esternazioni, così come mi è accaduto altre volte, al fine di scuotere le coscienze di tutti coloro che amano l’arte. Ma anche, e in particolare modo, rivolgendomi a quelle entità che qualcosa avrebbero potuto fare, e che in alcune occasioni, mi ero illuso che qualcosa avrebbero cambiato. Purtroppo, mi sono accorto che questo non avviene mai. Accade, invece, che ogni volta, oltre a penalizzare me stesso (ma questo ormai l’ho messo in conto), finisco per concedere un vantaggio a coloro che vorrei colpire (gli artisti furbacchioni), offrendo loro l’opportunità di avere modo di perfezionare il tiro e pensare bene sulla prossima mossa da fare. Ho, infatti, scoperto essere questi insieme ai più acerrimi detrattori, i miei più attenti lettori. Per questo confesso di aver meditato a lungo sull’opportunità riguardo la pubblicazione di questo mio nuovo contributo. Direte voi; ma allora sei un autolesionista? Ma che devo dirvi? Lo faccio per amore dell’arte? Lo faccio per contrastare coloro a cui non piace che si dica la verità? Lo faccio per colpa di quella scatoletta tra i miei due orecchi a cui piace pensare ad alta voce? Non lo so? Decidete voi. Io posso solo chiosare con quello che canta un altro Pino: Io dico quello che voglio, dico quello che voglio, dico quello che mi passa dentro questa testa, (…). Io dico quello che sento, dico quello che sento, qualche volta mi pento, qualche volta mi pento. Grande! Pino Daniele.

La dittatura dell’algoritmo

Una volta accadeva che, se fossi stato un bravo e stimato artista saresti diventato popolare, e di conseguenza avresti potuto trovare uno sponsor che ti avrebbe sostenuto a diventare conosciuto. Ora, invece, devi prima di tutto trovare uno sponsor il più potente ed influente possibile, grazie al quale potrai diventare famoso e celebrato. Spesso indipendentemente dalle reali capacità ed abilità di quello che si è capaci di fare nell’ambito di riferimento rispetto alla disciplina artistica considerata. Questo perché le collettività sono diventate serve del potere e non hanno più voglia di discernere e determinare scelte. Siamo diventati un pubblico che subisce le scelte di coloro che da una posizione di forza decide per noi, e nulla facciamo per cambiare le cose. Stiamo tutti soccombendo sotto gli algoritmi voluti da coloro che ci vogliono imporre il loro totale controllo. La dimostrazione ne è il fatto che gli artisti più importanti della nostra epoca, non fanno più opere d’arte, ma battono moneta.

Gli artisti battono moneta

Ecco quello che ho detto a tal proposito in una intervista di qualche anno fa: “Accade così, che certi artisti, se ancora in vita, ripagati oltre che economicamente anche con qualche piccola o grande gratificazione qui e lì, diventino una sorta di zecca che produce opere di vario formato e foggia (non importa se siano banane, stencil, sculturine scopiazzate) che vengono usate come controvalore per enormi transazioni economiche, sostituendo la carta moneta o altre forme di scambio. Questi artisti sono ignari di fare parte di tutto questo che rischia di diventare un grande bluff? Questi artisti sono coscienti che stanno alimentando una pratica che si sta sempre più consolidando? Ne è la prova il fatto che si possono trovare opere importanti del passato che vengono vendute e stimate a prezzi irrisori, in confronto a molte opere d’arte contemporanea di dubbio valore, vendute a prezzi inauditi. Allora mi chiedo: è da qui che nasce il bisogno di mitizzare e rendere famosi certi artisti, per celebrare le loro opere sugli altari delle case d’aste più importanti al mondo?”.

L’arte contemporanea e la bolla del valore

Non è questo foraggiare un sistema economico mondiale che sta commettendo grossi errori? Ma anche io ho un monito da fare. Bisogna fare attenzione perché prima o poi questo giocattolino potrebbe scoppiarci in mano. E molti potrebbero essere coloro che si potrebbero ritrovare, non con un pugno di mosche nelle mani, ma proprio senza mani. Ed allora ecco cosa ho scritto sempre nella stessa intervista: “Purtroppo, questo sistema si è dimostrato e si dimostra spesso fallace, così come avvenne per la bolla dei tulipani in Olanda. Le troppe decisioni avventate, spesso prese a tavolino con motivazioni puramente commerciali e di comodo, ne causa la sua fragilità. Per questo siamo ancora qui tutti a domandarci: Quali devono essere i fattori che determinano il valore di un’opera? La Gioconda sarebbe divenuta così preziosa se non fosse mai stata rubata? Chi decide cosa e quanto deve valere una determinata opera d’arte? Chi decide quale artista deve essere più importante di altri, e quindi le sue opere devono costare più di quelle di altri? Coloro che decidono conoscono e tengono conto del percorso artistico di un artista? Coloro che decidono considerano importante il valore sociale, spirituale, intellettuale, storico e artistico di un’opera d’arte? Purtroppo, a molti tutto questo non interessa, a molti interessa solo che abbiano un reale controvalore commerciale, possibilmente il più stabile possibile.

Riflessioni che trovo sempre più spesso qui e lì, come in un recente articolo della giovane curatrice indipendente Federica Schneck che si domanda: “Chi decide oggi cosa è arte e cosa merita di essere visto? Per chi creiamo mostre? Per chi esistono le fiere? Possiamo immaginare un mercato in cui il valore di un’opera non si misuri solo in termini economici, ma in termini di trasformazione culturale? Quale responsabilità abbiamo, come membri della comunità artistica, verso le generazioni future?”. Credo che sia ora che qualcuno incominci a dare delle risposte alle nostre perplessità. Infine, avendo iniziato con la citazione di un artista cinese, vorrei concludere con quella di un altro cinese: “Se un artista abbandona o decide di non seguire più la ricerca della verità non credo che sia negativo, ma se io rinuncio alla ricerca di una verità allora per me non c’è speranza” – Lin Wang.

Pino Boresta

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Pino Boresta

Pino Boresta

Pino Boresta nasce Roma e vive a Segni (Roma). Sulla scia di valori dei Situazionisti, di cui condivide impostazioni e finalità, realizza un’arte fatta di coinvolgimenti a tutto tondo, di se stesso e dei fruitori consapevoli o inconsapevoli delle sue…

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