Il martello di Michelangelo: comunicazione e storytelling culturale possono riattivare le opere?
Trasmettere il patrimonio non significa solamente esporre opere e oggetti, ma renderli parte di un dialogo attivo, partecipativo, emozionale, “spirituale”. Strategie contro la fruizione e i like facili
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Michelangelo che gli urla addosso, che gli chiede perché non parla, e tutta la storia dell’arte che si stringe in quell’istante quando l’artista si arrabbia con la sua statua di Mosè: bellissima, sembra viva, ma ahimè è muta. Questo aneddoto esprime perfettamente il problema fondamentale del nostro patrimonio culturale: non ci parla. I suoi oggetti, i suoi luoghi, le sue opere sembrano testimoni silenziosi di qualcosa. Ma di che cosa?
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Arte e comunicazione: le opere d’arte
Il vero problema non è il silenzio delle opere, ma la nostra incapacità di farle parlare, di raccontare la loro “storia” al pubblico contemporaneo. Qual è il bandolo della matassa?
Nei musei, nei centri storici, nelle chiese, tutto sembra stratificato, congelato, impolverato dal tempo e dalle guide turistiche che recitano a memoria il copione delle didascalie. Un’arte imbalsamata, catalogata, perfetta, intoccabile. Ma l’arte è un’altra cosa: è una ferita aperta, un viaggio, un’esperienza. Qualcosa che dovrebbe strapparci via dal flusso continuo delle notifiche, dell’intrattenimento mordi-e-fuggi, della superficialità obbligatoria.
E allora cosa rimane? Un patrimonio infinito, immenso, immobile. Eppure, vivo. Solo che nessuno più lo sente respirare. Non basta “preservare” le opere, insomma, ma occorre renderle vive e significative per chi le osserva. È lo storytelling la chiave per rendere il patrimonio culturale non solo accessibile, ma anche coinvolgente. Non si tratta soltanto di inventare storie per libera ispirazione, ma soprattutto di riconoscerle all’interno degli oggetti e dei luoghi che desideriamo raccontare.
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Lo storytelling culturale
Colum McCann dice che la distanza più breve tra due persone è una storia. Non si misura in centimetri, dunque ma in storie. Forse vale anche per noi e le opere d’arte. Forse il punto è tutto qui: raccontare. Le opere d’arte e i siti storici, infatti, possono sembrare distanti, immobili nel tempo, ma una storia ben raccontata accorcia questa distanza, avvicinando il pubblico al loro significato, alla loro “personalità”, se così possiamo dire. Non per creare nuove finzioni, ma per riscoprire le storie che ci sono già. Perché ogni quadro, istallazione, scultura, affresco, e pure ogni «rovina» ha qualcosa da dire. Bisogna solo mettersi in ascolto.
Lo storytelling culturale richiede un equilibrio tra rigore scientifico e capacità narrativa. Il rigore non è fine a sé stesso, ma serve a far comprendere (nel woke imperante!) che staccare le opere dal loro contesto finisce per erodere tradizioni fondamentali per le identità dei popoli, estrapolando gli oggetti artistici dal loro orizzonte ermeneutico originario. E serve anche per mettere in guardia dai limiti delle dinamiche di potere che influenzano la costruzione del sapere espositivo. I musei sono luoghi del potere, infatti. In bella mostra.
L’estetica dei like e della fruizione rapida
D’altra parte, la capacità narrativa richiede non solamente di raccontare il passato, ma di rispondere alle domande del nostro tempo e scoprire perché l’opera può essere rilevante per il nostro futuro. Questa, infatti, è la dinamica che ci muove: ricordiamo il passato sulla base di quel che desideriamo per il nostro avvenire.
E invece? Siamo fermi dentro un’epoca che consuma immagini a raffica. L’estetica dell’I like, della fruizione rapida, del vedere senza guardare. Scroll. Swipe. Altro scroll. Anche le opere d’arte diventano parte di questo flusso liquido, evanescente. La Cappella Sistina diventa un post su Instagram, la Venere di Botticelli uno sticker di WhatsApp. E in questo remix continuo, in questo consumo seriale di bellezza, rischiamo di perdere tutto.
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Arte e comunicazione: nuove forme di racconto
Ma forse esiste ancora una via d’uscita. Forse possiamo ancora fermarci, prenderci il tempo per guardare davvero. Perché non chiamare scrittori, attori, poeti? Perché non immaginare nuove forme di racconto, nuovi modi per restituire la voce a quello che sembra muto? Non per trasformare l’arte in spettacolo. Non per renderla più pop, più friendly, più instagrammabile. Ma per salvarla. Perché senza storie, senza parole, senza qualcuno che sappia raccontare e ascoltare, anche il più grande capolavoro diventa solo un oggetto inerte, una foto scattata al volo prima di passare alla prossima cosa.
Formulo allora una proposta: perché non coinvolgere scrittori e attori capaci di raccontarci quel che vediamo? E poeti che dicano in versi persino l’indicibile dell’opera? E videomaker capace di implementare la cosiddetta “ecfrasi digitale”, immaginando brevi video in cui le opere possano essere lette e interpretate? Dobbiamo approfittare dell’estetica da video-clip continuo per superarla in modo che non si riduca a un’epifania fluorescente prima del prossimo scroll.
Trasmettere il patrimonio non significa solamente esporre opere e oggetti, ma renderli parte di un dialogo attivo, partecipativo, emozionale, “spirituale”. Il martello di Michelangelo è lo storytelling, uno strumento essenziale, indispensabile, per valorizzare il nostro patrimonio artistico e culturale, garantendogli non solo conservazione, ma anche vita attraverso le storie pazzesche che può ancora raccontare.
Antonio Spadaro
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