Caravaggio 2025 a Roma: questa rassegna s’aveva da fare? Qualche considerazione

Stando al “2025” nel titolo della mostra romana, l’intenzione è stata fin da subito quella di mettere al centro dell’attenzione le novità caravaggesche. Ma il progetto ha funzionato?

Una breve premessa per chi potrebbe trovare troppo severo quanto segue. Io la stragrande maggioranza delle mostre (di arte antica) che si fanno oggi non la farei. Nulla contro il formato mostra in sé, che anzi può essere molto utile per comunicare l’arte al pubblico, con la sua caratteristica di imbastire una narrazione lineare. Le ragioni che mi portano a dissentire dall’attuale proliferazione di eventi espositivi temporanei sono piuttosto di ordine pratico, e molteplici: qui mi limito a richiamarne una, ossia che trovo inammissibile il fatto che il personale scientifico dei musei sia continuamente assorbito dall’incessante, frenetica organizzazione di mostre proprie e altrui, che necessariamente va a detrimento di quelle attività che prima di tutto dovrebbero caratterizzare un museo, quali la catalogazione e lo studio dei pezzi esposti e nei depositi, il restauro delle opere bisognose, la riflessione sugli allestimenti e le trasformazioni che ne derivano, il miglioramento degli aspetti legati alla comunicazione all’interno e all’esterno del percorso espositivo, etc.

Su Caravaggio 2025 a Roma

Per cui probabilmente non avrei fatto nemmeno la rassegna caravaggesca che si è appena aperta a Palazzo Barberini (ma ecco, come dicevo, magari sono io che sono un po’ ‘talebano’…). O meglio, forse l’avrei fatta come gli stessi curatori devono averla immaginata in un primo momento.

Come fa capire, nel titolo della mostra, il “2025” che segue il nome con cui Michelangelo Merisi è universalmente noto, l’intenzione è stata fin da subito quella di mettere al centro dell’attenzione le novità caravaggesche, fare il punto su quelle che sono le più recenti acquisizioni sul pittore, allargare al vasto pubblico un dibattito che, intorno a poche opere, ha visto confrontarsi in maniera accesa gli studiosi. Dunque, una mostra raccolta, con pochi pezzi del maestro (naturalmente l’Ecce Homo spagnolo, eventualmente accostato a quello di Genova, forse i due Maffeo Barberini, e poco altro), magari affiancati da dipinti di altri autori, o da copie e derivazioni, a meglio inquadrare i “quesiti caravaggeschi” che si volevano sottoporre all’attenzione dei visitatori.

Le mostre da grandi numeri

Questo impianto tuttavia, se mai fu proprio di chi ha architettato la mostra, presto ha ceduto il passo a un’impostazione ben diversa, e quasi opposta: il fatto che a essere mostrate dovessero essere le opere di un pittore che gode di una straordinaria presa sul pubblico ha reso irresistibile la tentazione di trasformare l’evento in un momento meno di ricerca e più di cassetta, che fosse maggiormente in grado di macinare “grandi numeri” (e l’obiettivo è stato pienamente centrato, come mostrano le migliaia di biglietti venduti già prima dell’inaugurazione). Dunque si è deciso di annacquare il progetto di un Caravaggio davvero 2025, incentrato sulle novità, e di diluirlo nella formula della monografica, peraltro ‘pura’, ossia escludendo ogni pezzo di contesto. In tempi piuttosto stretti è stata messa in piedi una mostra ampia, ma non amplissima (24 pezzi), che riecheggia nelle dimensioni la rassegna del quattrocentesimo della morte alle Scuderie nel 2010 (ma le presenze sono in minima parte sovrapponibili). Oggi come allora, si dà una panoramica completa, ossia dagli esordi alla conclusione, della parabola creativa caravaggesca, ma al contempo incompleta, né potrebbe essere altrimenti: i prestiti importanti che si sono avuti sono tanti, ma altrettanti sono quelli che, per svariate ragioni, non si sono potuti avere o di cui non si è potuto neppure fare richiesta; soprattutto, il meglio di Caravaggio va in scena nelle chiese, specialmente romane, e se Dio vuole lo si è lasciato in pace in San Luigi dei Francesi, a Santa Maria del Popolo, in Sant’Agostino (benché sempre più spesso si assista, talvolta con la motivazione o il pretesto di un restauro, al trasporto in mostra di pale che sono temporaneamente sottratte agli altari per i quali furono dipinte, cosa che tendenzialmente si dovrebbe evitare di fare; che poi il discorso non è così semplice e univoco, dato che in mostra le pale si possono vedere molto meglio di quanto, di solito, non si vedano nelle chiese, ma non è il caso di diffondersi ulteriormente qui su questo punto).

I progetti di Palazzo Barberini e Corsini

Tenuto presente tutto quel che si è detto sinora, e rimarcando come molti dei dipinti esposti si trovino già a Palazzo Barberini o a Palazzo Corsini e in altri musei romani, occorre altresì sottolineare come diversi siano i momenti di assoluto rilievo della rassegna: dal famoso Ecce Homo, di fronte al quale gli “intendenti” pigolano compiaciuti, ora a favore, ora contro l’attribuzione, al giovanile Mondafrutto prestato da re Carlo d’Inghilterra, che sembra finalmente quello autografo (dipinto non esaltante, ma Caravaggio non nasce ‘imparato’); dal bellissimo confronto tra i due ritratti di Maffeo Barberini (più incerto il più antico dei due, ma non per questo da riferire ad altri, già compiutamente, prepotentemente Caravaggio l’altro, che forse diverrà a breve – speriamo! – di proprietà statale) alla prima versione su tavola della Conversione di Saulo (che sarebbe meraviglioso vedere acquisita al patrimonio pubblico). Stupenda la Santa Caterina da Madrid, stupefacente la Cattura di Cristo dublinese (per me problematica, ma in ogni caso uno dei più bei quadri di tutto il Seicento). Vi è poi tutta una serie di quadri importanti che vengono dagli Stati Uniti, in molti casi da città minori, che più difficilmente si ha l’opportunità di visitare: il San Francesco in estasi di Hartford, il San Giovanni Battista di Kansas City, i Bari di Fort Worth. Un’ottima occasione di vederli tutti assieme, senza impelagarsi in un impegnativo, per quanto affascinante, periplo di Trumplandia.

Fabrizio Federici

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Fabrizio Federici

Fabrizio Federici

Fabrizio Federici ha compiuto studi di storia dell’arte all’Università di Pisa e alla Scuola Normale Superiore, dove ha conseguito il diploma di perfezionamento discutendo una tesi sul collezionista seicentesco Francesco Gualdi. I suoi interessi comprendono temi di storia sociale dell’arte…

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