Sventola il tricolore. Un dialogo tra artisti sulla bandiera Italiana

Dopo la seconda edizione della mostra “La poesia della terra” a Montecchio, il curatore ingaggia un dialogo con gli artisti Luca Bertolo e Flavio Favelli per approfondire il ruolo che la bandiera riveste nell’immaginario collettivo

FF: È capitato più volte che qualcuno mi facesse i complimenti per la foto del mio profilo whatsapp col tricolore su un bel cielo azzurro come sfondo. I toni di solito sono questi:
anche per te è importante dimostrare di essere italiano…
anche tu tieni alla bandiera…

anche tu tieni al paese…
Ma la bandiera è a mezz’asta, a lutto. Ho voluto mettere apposta un simbolo per me lontano, per me desueto, a lutto, forse l’unica possibilità per avvicinarsi alla bandiera. 

In qualche modo, con Luca Bertolo (Milano, 1968), ci siamo decisi a fare una bandiera. Nel 2021, tempo del virus a corona, abbiamo dipinto un pezzo di bandiera italiana a testa, il tricolore: Luca la parte sinistra, verde e metà bianco, ed io l’altra metà bianco e poi rosso. È stata poi unita e cucita per diventare un nuovo tricolore. Entrambi abbiamo già fatto opere attorno all’idea della bandiera e per questa esposizione abbiamo pensato che concentrarci sul tricolore poteva essere un progetto più efficace, insomma prendere il toro per le corna, muovendoci, come ha detto Luca, in quel terrain vague tra facili ironie ed entusiasmi patriottici

Flavio Favelli. Photo Lorenzo Palmieri
Flavio Favelli. Photo Lorenzo Palmieri

La difficoltà del “maneggiare i simboli in arte”

LB: Sì, l’idea iniziale era di lavorare sulle bandiere. Quando Flavio Favelli (Firenze, 1967) ha proposto di circoscrivere il tema al solo tricolore italiano un brivido mi ha attraversato la schiena. In generale, trovo difficile se non impossibile, maneggiare i simboli in arte. Guardi un simbolo, lo riconosci e pensi “ah sì certo, ho capito”. A quel punto l’opera è morta. Credo che l’unica strategia per un artista sia quella di sviare l’attenzione dal simbolo, che è un oggetto metafisico, per arrivare alla sua “incarnazione” materiale, fisica, mutevole nel tempo. Il tricolore (verde bianco rosso) rappresenta sempre e solo la nazione italiana. Se però considero una bandiera italiana come oggetto – enorme o minuscola, che garrisce al vento o giace a terra nel fango, nuova o vecchia, di seta o di cotone grezzo ecc. ecc. – ecco che si apre un territorio in cui operare artisticamente, ovvero mettere in forma elementi mutevoli.

AG: Mi ha subito intrigato la vostra proposta di lavorare sulla bandiera, e anche l’ulteriore rilancio di lavorare solo sulla bandiera italiana. Mi piacciono le mostre con un tema molto molto circoscritto. Tutto è nato dall’idea di presentare alla Colombiera, vicino a Sarzana, il vostro lavoro a quattro mani, ovvero la prima bandierona che abbiamo appeso dentro la cantina dell’azienda agricola. Mi ha fatto effetto vederla lì: il vino, un po’ come la bandiera, è uno dei simboli dell’Italia, c’era qualcosa di davvero forte in questo accostamento. Ma ciò che davvero mi ha colpito è stato il modo in cui avete affrontato il tema bandiera; lo avete fatto con la complessità, l’ambiguità e la spigolosità che tutti gli artisti dovrebbero sempre avere. Il risultato finale infatti è una mostra in grado di mettere a disagio tutti, e di sollevare profonde questioni. Coloro che non sono patriottici saranno a disagio nel trovarsi circondati da qualcosa che comunque ancora “scotta molto” e che per certi versi è ancora un tabù, mentre le persone più vicine alla patria e alla bandiera come un valore positivo si troveranno di fronte a bandiere rattoppate, oppure fatte con copertine di Topolino, o che si uniscono per formare collage di vecchi drappi luridi, o bandiere in cui il verde sembra ottenuto dalla pulitura dei pennelli a fine giornata, finanche a una bandiera bianca che, a una visione ravvicinata, intuiamo essere fatta tagliando via il verde e il rosso dal vessillo italiano. Abbiamo rischiato il vilipendio.

FF: Fin da bambino mia madre mi raccontava della Divina Commedia e mi colpì molto l’immagine degli Ignaviche sono condannati a seguire una bandiera bianca – forse con l’opera nel vigneto abbiamo inteso anche quella? Immagine un po’ ridicola, un po’ triste, ho sempre associato questo ricordo alle bandiere, quasi fosse un principio da non dimenticare mai. Questi qui nudi che girano dietro ad un vessillo senza sosta è stato una specie di imprinting che mi ha sempre tirato per la giacca. La lingua batte dove il dente duole e i poster tricolori con W LA RESISTENZA e lo scudetto bianco rosso e verde sui bomber e l’inno e la familiarità visiva quando la vediamo. Nel paese dove abito una volta il falegname mi disse: “Ah, anche la sinistra ha scoperto la bandiera italiana”. Ancora di più oggi ci sentiamo distanti da tutte le bandiere che sventolano con vigore e forse vogliamo colmare questa distanza a modo nostro, alla maniera dell’arte. 
E la bandiera dei tre colori
È sempre stata la più bella-la-la-la
Noi vogliamo sempre quella
Noi vogliam la libertà

Noi vogliamo sempre quella noi vogliam la libertà.
E riconosco che quando stavo facendo il collage, con le copertine di vecchi giornalini di Topolino per rifare la bandiera, ho messo molta attenzione nella composizione.

La bandiera come topos dell’arte

AG: La bandiera è anche un grande topos dell’arte, soprattutto nel ‘900. La prima che mi viene in mente è quella americana di Jasper Johns, forse la matrice di tutte quelle venute dopo ed è uno dei capolavori del secolo appena passato. Per certi versi quest’opera di Johns ha molto a che fare con le vostre, soprattutto per il modo in cui si muove instabilmente tra pittura e scultura/ready made. La prima bandiera l’ha fatta quando aveva più o meno 24 anni, nel 1954, e mi ha sempre colpito il fatto che fosse stata realizzata in encausto, una scelta abbastanza anomala, il ché già dice molto della maturità e del livello dell’artista sin da giovanissimo. Come vi relazionate a questa opera? In Italia mi sembra che sul nostro vessillo tutto sommato non siano state fatte tante opere.

LB: Jasper Johns è stato un pittore geniale fin dagli esordi. Io a 24 anni scarabocchiavo brutte copie di Francis Bacon… Le bandiere di Johns sono potenti e riescono ad aggirare il potere mortificante del simbolo di cui parlavo prima. L’encausto, ovvero l’utilizzo a caldo della cera mescolata a pigmenti, corregge la piatta dimensione grafica del pattern, sottolineando una sorta di esistenza autonoma di stelle e di strisce. Il primo incontro emozionante che ricordo di aver fatto con il tricolore risale ai primi Anni ’90. Mi serviva un lavoretto per tirare avanti e un amico che lavorava come guida al Museo del Risorgimento di Milano mi presentò alla responsabile dicendole che ero appassionato di storia. Era falso, ma mi misi a studiare. Facevo sedere le scolaresche davanti ai quadroni di storia dei fratelli Induno o di Eleuterio Pagliano. “Questo s’intitola La battaglia di Magenta”, spiegavo. “I soldati francesi e piemontesi che vedete sulla sinistra affrontano gli austriaci sulla destra. Domanda: ma cosa c’entrano questi soldati con la pelle scura?“. E così via. Tra le reliquie, oltre alla sciabola del generale Massena e a qualche cimelio garibaldino, ricordo una bandiera tricolore, una delle più antiche conservate. Certamente cucita a mano di nascosto, da mani femminili. Quello che mi colpiva erano i segni dell’invecchiamento: la tela sgualcita, i colori ormai spenti. Me la immaginavo mentre sventolava tra gli spari su una barricata, o nascosta in un baule tra gonne e camicette.

FF: Non riesco a capire bene se la bandiera di Jasper Johns sia un amuleto o un talismano; forse tutti e due insieme, perché protegge da quello che emana quella vera, ma ha anche il potere di fare vedere meglio quella vera. Non sventola, sta ferma, è fatta di roba che sa di vecchio, cerume, diversa per sembrare più vera e alla fine sventola più di tutte. Leggo che ha fatto più di 40 opere sulla bandiera americana e mi immagino la scena: “Ehi Jasper che stai facendo?” Sto facendo la bandiera”. E poi a ridire che aveva sognato che stava dipingendo la bandiera e così che la doveva dipingere e ridipingere. Perché se c’è un paese legato alla bandiera questo è proprio l’America, anche se nessuno può essere punito per averla bruciata se è libertà d’espressione. In America sventola sempre, negli altri paesi la bruciano in piazza, è il cencio colorato più ganzo che ci sia, non c’è storia. Forse, insieme alla croce, al crocifisso, e più della bandiera italiana, la bandiera a stelle e strisce è l’immagine più forte che ci sia. Croce (!) e delizia. Ecco perché Jasper Johns la doveva dipingere più di 40 volte. Ma la madre di tutte le bandiere è la White Flag. Credo che il mondo si divida in due, non in atei o credenti, non in carnivori o vegetariani, ma fra chi gli viene un accidente a vedere la White Flag e chi no. È un turbamento, uno spettro che ci sbatte in un mondo sbiadito, cancellato, una fotocopia in bianco e nero, così quasi per risparmiare; un salto nel vuoto dentro lo straccio che ogni giorno ribalta noi e loro. In confronto il tricolore è un plaid da ginocchia. Nel mio profondo associo la bandiera italiana definitivamente al panno stanco verde fra l’oliva e la reseda delle divise dei militari italiani. Quelli con la carnagione scura, meridionali, capello corvino e faccia romana, cioè testa di statua maschile romana, mediterranea, senza pretese, buona rasatura, col basco nero. È così, non riesco a separare il tricolore dal mondo militare. E forse, come dice Antonio, perché l’arte italiana se ne è occupata poco e se lo avesse fatto non avrebbe avuto la stessa forza di quella americana. Angeli e Schifano fanno l’America, mica l’Italia. Certo c’è il 1982, anno visivo e santo, e la Nazionale che si prendono un po’ il palco, ma prima per me viene il mondo militare.

Il vino, come la bandiera, un simbolo nazionale

AG: Noi la nostra White Flag l’abbiamo fatta sventolare proprio in mezzo al vigneto. Voglio farvi allora una domanda sul vino, che a sua volta è grandissimo simbolo nazionale, forse il vero simbolo della nazione. Tu Flavio hai fatto tantissime opere legate alle bottiglie di vino e alle loro etichette. Mentre con te Luca abbiamo questa cosa che mi prendi in giro dicendo che bevo sempre troppo poco. Ecco, vorrei farvi questa ultima domanda, ma chiedervi anche una riflessione sulla poesia, perché il territorio dell’azienda agricola in cui abbiamo fatto la mostra è molto legato alla poesia: il titolo è preso da una frase di Mario Soldati in cui definiva il vino proprio “La poesia della terra”; ma in queste zone abitava Franco Fortini, a cui tu sei molto legato Luca; e anche tu Flavio spesso parli di poesia e poeti, anche amatoriali…

 L.B. Per la sera dell’inaugurazione della mostra ci eravamo proposti di leggere qualcosa, ma alla fine, tra un bicchiere di vino e l’altro la serata è trascorsa felicemente anche senza poesie. Di Fortini avevo cercato qualche verso che centrasse con quei luoghi, tra l’estremo sud della Liguria e l’estremo nord della toscana (ad Ameglia, vicino a Sarzana, Fortini aveva una seconda casa); appunto dove si trova La Colombiera. Ora però, riaprendo di nuovo il libro, ne ho trovata un’altra che, per altri motivi mi piace citare per intero:

La prossima abolizione della natura (1984)

Le piccole piante mi vengono incontro e mi dicono:
«Tu, lo sappiamo, nulla puoi fare per noi.
Ma se vorrai entreremo nella tua stanza,
rami e radici tra le carte avranno scampo».

Ho detto di sì a quella loro domanda
e il gregge di foglie ora è qui che mi guarda.
Con le foreste riposerò e le erbe sfinite,
vinte innumerevoli armate che mi difendono.

FF: Ho un rapporto direi disturbato col vino. Mi piaceva bere vino, quei bianchi vicini al piscio di gatto, quei rossi vicini allo sterco di cavallo. Poi ho smesso, non bevo da tanti anni, forse più di dieci, peccato, ma non me la sentivo più, forse non ero all’altezza del vino, non avevo un rapporto sereno con lui. E anche con la poesia non ho un rapporto sereno; mio padre, poeta pistoiese, distrusse la mia famiglia e anche me e così c’è questa ombra che si tira dietro…
Allora riporto una poesia di mio padre, magari l’ombra svanisce per sempre. Forse era un pessimo poeta, chissà, ma direi che il punto è presentarla come operazione d’arte, allo stesso modo di come abbiamo esposto i cenci che si chiamano bandiere:

Manlio Favelli
La mia terra (1973)

La mia terra

ha il suo cuore
sopra le radure
dove il sole riscalda
le mie vene.


Antonio Grulli

Libri consigliati:

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati