Cultura e benessere. Andare al museo riduce lo stress e rende felici
Nell’ultimo anno abbiamo parlato molto di come i musei e il benessere dei loro visitatori siano intrecciati. Facciamo il punto, evidenziando anche qualche buona pratica italiana
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La ricerca della felicità è tra le aspirazioni alla base dell’esistenza umana. Una ricerca che – proiettata nel tran-tran quotidiano, soprattutto se metropolitano – sembra sempre più difficile e posticipata al “quando sarò in pensione”. Quanti arrivano sofferenti a fine giornata (di lavoro o di studio che sia), incapaci di concentrarsi anche nelle attività più semplici? Quanti sognano il fine settimana, quando (forse) riusciranno a scappare al mare, o a fare una camminata in campagna? Il qui e ora, dal lunedì al venerdì, è sempre più raro da trovare nelle menti dei lavoratori e degli studenti. E i desideri si proiettano spesso al di là dello schermo del computer, oltre la scrivania e le pareti dell’ufficio. Verso i boschi e la campagna – ad alcuni basta anche il parco cittadino sufficientemente esteso – o, perché no, in un museo.
Lo stress mentale da studio e lavoro è un dato di fatto, e la temporalmente avida routine quotidiana non aiuta. Gli inglesi la chiamano “mental fatigue”, fatica mentale, ed è quello stato di torpore intellettivo che ci impedisce di concentrarci anche su semplici task. Per non parlare di riprendere a lavorare…
Si parla spesso di benessere in azienda, di work-life balance, ma le iniziative intraprese per risolvere questo problema non sempre funzionano. Secondo uno studio del 2023 del Sole 24Ore, due italiani su tre soffrono di stress o burnout. È chiaro che servono strade alternative a quanto fatti finora. Strade potenzialmente efficaci, ma ad oggi poco, o per nulla, attuate, almeno qui in Italia. Quali? L’arte e le esperienze al museo, ad esempio. Il riferimento di poco fa era motivato: tra i luoghi ideali di relax, ci sono gli ambienti naturali, ma anche i luoghi artistici. Perché circondarsi di arte fa bene allo stress, e non solo. Recarsi fisicamente – e abbandonare la realtà quotidiana – in un museo, anche per poco, ha un beneficio potenziale incredibile.
Incredibile, ma vero: lo dicono ormai decenni di studi condotti a livello internazionale, che potrebbero fare da base per completare i piani sul benessere degli ambienti di studio e lavoro. I casi concreti di implementazione sono ancora pochi. Ma la teoria c’è, ed è supportata anche dall’OMS, ottimista dopo le evidenze emerse dalla Scoping Review pubblicata nel 2019. L’effetto ristorativo di una visita museale, ad esempio, supportato da diverse analisi quantitative, troverebbe ottime applicazioni nel quotidiano di ciascuno. A partire da chi è mentalmente affaticato.
Con l’obiettivo di contribuire alla diffusione di queste conoscenze, e degli esempi concreti del loro impiego, abbiamo indagato a fondo l’argomento, per divulgare ritrovati molto interessanti, ma ancora ignoti al grande pubblico. Ci siamo poi guardati attorno, concentrandoci in due metropoli italiane, Milano e Torino: contesti ideali per mettere a frutto queste pratiche e dove già si sta muovendo qualcosa.
I numeri dello stress sociale
Partiamo dal problema: lo stato della società urbana del XXI Secolo, con riferimento particolare alle economie occidentali. Tecnologia, connessione ininterrotta, stimoli plurimi e una dotazione di ore giornaliere di vita che – a nostro malgrado – ancora non si è riusciti a estendere. I risultati? I numeri parlano chiaro: se nel 2016 (ancora prima del Covid) un cittadino europeo su sei dichiarava di avere una qualche problematica legata alla salute mentale, la preoccupazione per il futuro comincia a salire. Siamo davanti a una questione sociale, che coinvolge – per differenti cause alla radice – vari strati della popolazione. Nessuno escluso, salvo chi ha raggiunto l’età della pensione, il quale, però, può a sua volta soffrire di disturbi mentali e cognitivi legati all’anzianità. Ma diamo uno sguardo alle cifre chiave che delineano lo scenario.
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Che forma ha la felicità oggi?
Fino a pochissimo tempo fa, la felicità – in una scala d’età orizzontale dalla nascita all’anzianità – aveva una caratteristica forma a U: altissima da bambini e in rialzo dopo la pensione. Nel mezzo? C’era la celebre “crisi di mezza età”, che coglieva una fetta consistente della popolazione mondiale, portando con sé un notevole aumento di ciò che si trova all’opposto dell’idea di “essere felici”. Malessere, preoccupazioni, ansie e stress, con associato picco di “morti per disperazione”. La U della felicità era una verità considerata valida ancora 15 anni fa. I dati mostrati nel grafico sopra (2018), suddiviso per fasce d’età, in parte confermano, ma in parte suggeriscono già una mutazione oggi molto più significativa. Come infatti riscontrano i due economisti britannici David Blanchflower e Alex Bryson nel loro studio pubblicato su un numero di Eco del 2024, le cose sono cambiate. Detto semplicemente: si sono capovolte. La felicità aumenta e l’infelicità diminuisce con gli anni. A preoccupare sono soprattutto i giovani sotto i 25 anni, i quali dopo il 2018 hanno registrato un’incredibile scalata di casi di forte depressione… paragonabile alla vecchia crisi di mezza età.
L’arte, la cultura e i musei al “servizio” della salute mentale
A questo punto, ci si domanda cosa possano fare il mondo dell’arte e le sue istituzioni davanti a un bisogno, quello della criticità della salute mentale, che è oggi piuttosto diffuso nella società. A giustificare la responsabilità “sociale” di organismi come musei ed organizzazioni culturali c’è la convinzione del loro ruolo di “servizio pubblico”, radicato nella museologia condivisa da nomi del passato e del presente, Franco Russoli o James Bradburne per citare due esempi. Un’idea di servizio che li deve rendere attenti e pronti all’ascolto – e allo sviluppo di una risposta – dei bisogni della comunità in cui sono inseriti.
Poste dunque le basi ideologiche di questa nuova operatività sociale, si entra nel vivo della questione legata a cosa possano fare in concreto i musei e l’arte in generale per la salute e il benessere mentale. È chiaro che non ci si deve aspettare di risolvere il problema con la semplice “medicina artistico-culturale”. Tuttavia, anche questo settore può (e dovrebbe) dare il suo contributo, nello spirito di una collaborazione cross-settoriale – il suggerimento dato dall’OMS stessa – che affianchi agenti e operatori culturali, sanitari, sociali e persino politici (si parla anche di politiche pubbliche che potrebbero essere sviluppate per il caso). Uno l’obiettivo – la promozione e il supporto alla salute mentale – ma diverse le azioni, a seconda delle competenze e delle potenzialità realistiche dei singoli.
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Prevenzione e promozione della salute anche attraverso l’arte
Alla luce della consapevolezza che l’arte non è un nuovo farmaco universale, ci si chiede in che misura e contesto possa essere utile. È opportuno guardare alle indicazioni fornite dall’OMS a seguito degli studi di revisione delle sperimentazioni fatte negli ultimi anni. Queste rilevano come la partecipazione, attiva o passiva, alle attività culturali possa essere d’aiuto soprattutto nella promozione di stili di vita sani e nella prevenzione delle malattie, oltre che per terapie molto specifiche in cui gli stimoli artistici coadiuvano la medicina. Si tratta dunque di un contributo a migliorare quei fattori di “contesto” – ambientali, sociali, culturali – che influenzano lo stato di salute mentale e fisica e che, se sostenuti, possono ridurre l’insorgenza e la gravità di malattie più serie. Non si chiede ai musei di diventare “ospedali” – questo altererebbe la loro natura e non risolverebbe il problema in modo economicamente efficiente – bensì di fare la loro parte nel prevenire e ridurre le pressioni sui sistemi sanitari, il cui ricorso oggi è spesso eccessivo e non necessario.
I benefici dell’arte per la salute mentale
A concludere l’analisi, guardiamo al ventaglio di studi e pratiche sperimentali sviluppate negli ultimi anni. Nell’ambito di quella che è, dunque, un’efficacia di prevenzione e promozione di stili di vita sani, la partecipazione ad attività artistiche può alleviare e mitigare diversi disagi e condizioni che influenzano negativamente gli individui. A partire dallo stress mentale ed emotivo. Volendo andare più nel dettaglio degli effetti specifici che le esperienze culturali – in particolare al museo – possono avere, riportiamo i risultati di alcuni studi recenti. Come già si era anticipato nell’introduzione di questa inchiesta, i benefici cominciano dalla riduzione del senso di stress e affaticamento mentale dovuto a una concentrazione lavorativa o di studio prolungata. Ad agire è tanto l’esperienza e il suo contenuto, quanto l’ambiente museale in sé. Riguardo l’impatto di quest’ultimo, c’è un nome specifico del fenomeno: effetto ristorativo.
Continuando sulla stessa linea, l’arte – soprattutto se esteticamente appagante – è un forte motore di emozioni positive. Comparando le diverse tipologie di opere, dipinti di arte antica e moderna, paesaggi naturali in particolare, sembrano i più efficaci.
La felicità passa poi per la riduzione di tutti i sentimenti negativi: ansia, depressione, tristezza, portando invece all’aumento del senso di soddisfazione per la propria vita e dell’ottimismo. A stimolare l’appagamento è l’occasione di apprendimento offerta dai contesti culturali, decisamente lontani dall’idea (poco invitante) di studiare sui banchi di scuola. Gli studiosi lo chiamano “learning for fun”: è un “imparare divertendosi”, senza costrizioni, in cui la conoscenza è una conquista che si accumula durante l’esperienza e che, spesso, è destinata a durare più a lungo. È un altro degli effetti degli ambienti museali, che allontanano il pubblico dalla realtà, per poi riconsegnarlo alla quotidianità ristorato e pronto a rimettersi al lavoro anche subito dopo.
Accanto a tutti questi impatti verosimili – la cui efficacia è variabile a seconda delle caratteristiche di ciascuno – sugli individui sani (o con disturbi moderati), ci sono i benefici per chi soffre di patologie mentali e cognitive più gravi. Ma qui ci si inoltra in campo medico e neurologico; in questo discorso ci limitiamo a rimanere sul piano della promozione della salute e prevenzione attraverso esperienze che riducano stress e negatività, prima che si trasformi in altro di più serio.
Brain-friendly museum: dalla teoria alla pratica
In materie nuove come quella oggetto di queste pagine, la voce di un esperto aiuta a chiarire la teoria e illustrarne gli ultimi sviluppi. A questo proposito, abbiamo intervistato la Dott.ssa Annalisa Banzi, che ha delineato per noi i capi del prototipo di Brain-friendly museum per i musei italiani di domani. Dottoressa in Storia dell’Arte e autrice di diverse pubblicazioni sul tema, Banzi è assegnista di ricerca a capo del progetto ASBA, che porta il benessere mentale nelle sale dei musei italiani
Intervista ad Annalisa Banzi
Il progetto ASBA, di cui lei stessa si occupa, è parte del quadro più ampio che vuole concretizzare anche in Italia il paradigma di Brain-friendly museum. Che cosa si intende?
L’idea è di un museo che – accanto agli obiettivi tradizionali di cura e valorizzazione del patrimonio – intenda occuparsi anche dei bisogni specifici del nostro cervello. Il progetto ASBA, in particolare, si occupa del benessere dei cittadini e del personale museale.
Parlando di format di attività da proporre in questi musei, due sono molto interessanti e poco conosciute come il Chair yoga.
Per Chair yoga, si intende un un’attività da svolgere su una sedia, come suggerisce il nome. Questo da un lato lo rende particolarmente adatto alle sale del museo, in quanto non rischia di danneggiare le opere. Dall’altra parte, si addice anche ai pubblici più fragili, come gli anziani ad esempio.
E il metodo Nature + Art, invece?
Nature + Art è una metodologia al momento ancora in fase sperimentale che unisce l’arte alla natura. È applicabile in tutti quei musei che hanno a disposizione spazi verdi esterni: cortili alberati, giardini botanici, parchi… L’attività si sviluppa in due momenti. Si comincia all’interno, ove i partecipanti sono invitati a sostare davanti a una serie di opere. L’obiettivo è dar loro modo di instaurare un dialogo con l’oggetto che osservano, acquisendo più consapevolezza delle emozioni e riflessioni che ne scaturiscono. Ciascuno si appunta quello che sente, per poi condividerlo con gli altri del gruppo nella seconda fase, che avviene nello spazio naturale, a cui prendono parte anche un conservatore del museo e un facilitatore.
La scelta del luogo naturale sembra in linea con la teoria dell’effetto ristorativo di questi ambienti, com’è vero per i musei. È così?
Esatto: l’ambiente naturale – giardino o parco che sia – è strategico per le sue proprietà rigeneranti, che favoriscono il defaticamento mentale di chi vi è immerso, potenziando l’efficacia dell’attività.
Nel descrivere il metodo Nature + Art, ha citato anche la partecipazione di un conservatore e di un facilitatore. Qual è il loro ruolo e perché è importante?
Il conservatore fa da ponte tra partecipanti e museo, introducendoli al proprio patrimonio culturale. Ogni attività ha infatti un duplice fine: agire positivamente sulla mente, ma anche valorizzare le collezioni e aiutare a instaurare un dialogo proficuo con il pubblico. E poi c’è il facilitatore: esperto nel gestire e armonizzare i gruppi coinvolti in questi programmi di benessere. È colui che crea il dialogo e stimola la partecipazione, conducendo la sessione.
Visto che si tratta di un ambito che tocca da vicino la sfera emotiva, gli psicologi hanno qualche ruolo particolare?
Gli psicologi sono parte integrante della dinamica di collaborazione cross-settoriale che è alla base delle attività in questione. Possono intervenire direttamente, prendendo parte alle sessioni, o supportando la sperimentazione in qualità di ricercatori, esperti nella misurazione dei fenomeni psicologici che si desidera indagare.
Come ultima domanda, una prospettiva sul futuro applicativo di queste pratiche. È realistico pensare di estenderle al personale di aziende esterne cittadine, come parte dei programmi di benessere sul luogo di lavoro?
Al momento non abbiamo ancora dato vita a nessun programma rivolto nello specifico alle aziende. Tuttavia, è senz’altro uno dei prossimi passi: sono sempre più quelle che ci chiedono di attivare attività anche per i loro dipendenti. Sarà una delle linee del futuro.
Emma Sedini
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