“La tecnologia è ingombrante”. Intervista all’artista Federica Di Pietrantonio
Si muove tra l’obsolescenza e l’imperfezione digitale la giovane artista Federica Di Pietrantonio: conosciamo meglio il suo lavoro e la sua estetica in questa intervista

Tecnologia e nostalgia sono le due polarità all’interno delle quali si muove l’arte di Federica Di Pietrantonio. Nelle sue opere, il riferimento all’immaginario digitale nel quale la società contemporanea vive immersa è del tutto evidente: l’artista, tuttavia, ne mette in luce le lacune, gli aspetti disfunzionali, il senso di struggimento che può derivare dal loro utilizzo compulsivo. Di Pietrantonio pare già prefigurare l’obsolescenza di quelle che oggi definiamo “nuove tecnologie”; le sue opere sembrano una specie di passeggiata tra le rovine di questa archeologia tutt’altro che lontana, che l’artista rende visibile attraverso parti incompiute o cancellate, simili a piccoli bug. L’immagine digitale sembra così manifestare delle défaillance – delle strane imperfezioni –, approdando a una sintesi formale che, pur partendo da presupposti diversi, fa venire alla mente autori (penso a Valerio Adami) che hanno lavorato sulla riduzione a una “piattezza grafica” della pittura.
Le tue opere e, in generale, la tua estetica attingono a piene mani dal mondo digitale. Trovo però che ci sia una sfasatura con il tempo che stiamo attraversando: non c’è traccia o quasi di iper-tecnologie, le tue immagini sembrano rifarsi piuttosto a videogames e software di almeno una decina d’anni fa, a un’idea di bassa risoluzione…
Il più delle volte mi interessa lavorare con la tecnologia low-res perché è accessibile, integrata in ogni aspetto della quotidianità, delle abitudini, del pensiero. La tecnologia è ingombrante, così come il nostro corpo è ingombrante nel mondo: prendiamo una posizione determinando il nostro abitare ed essere abitati dalla tecnologia. L’altro aspetto è legato alla materia elettronica, all’idea che un dispositivo, attraverso i suoi hardware, dialoga con il nostro corpo; in questa dialettica corpo e hardware creano una relazione, un modo di essere insieme. Lo sviluppo tecnologico, iper-veloce, si cura dello sviluppo di nuove features, ma gli aspetti emotivi e sentimentali, tendenzialmente, hanno tempi di assestamento più lunghi.
Un esempio pratico, tra i tuoi lavori?
Nell’installazione the edge of collapse instauro la pratica del contatto visivo tra l’osservatore e lo sguardo di un avatar, con l’intenzione di poter rompere la finzionalità virtuale e stabilire una connessione più profonda tra i due sguardi. L’anacronismo tecnologico per me è un confronto con l’esperienza diretta degli utenti che vivono e sopravvivono online, per i quali i rapidi cambiamenti non sono solo una conseguenza dello sviluppo tecnologico ma una vera e propria alterazione del tempo, della realtà, dell’ecosistema digitale, dell’interfaccia del mondo.
In effetti le tue opere, in particolar modo i dipinti, mi sembra esprimano un forte senso di languore, di inquietudine. Che rapporto hai con la nostalgia?
La tecnologia è un confronto diretto con l’obsolescenza, inestricabile dalla costruzione dei nostri rapporti e della nostra identità. Vedo lo sviluppo tecnologico come soluzione all’irreparabile ed eterna solitudine umana nel mondo, ma anche come rapporto specchiante con l’ego. Con la pittura cerco di esporre questo complesso rapporto, come la relazione tra l’utente e il corpo ad esso connesso, la complessità del dolore e quindi del piacere. Cerco di esprimere uno stato di anestesia contemporanea, dove il dolore ha perso il rapporto con il simbolico, non ha più senso “stare con il dolore”, così come la ricerca del piacere è non esaustiva. Per esempio, il dipinto Das Eismeer (office core) è ispirato dalla pittura omonima-per-metà di Caspar D. Friedrich, dove il mare di ghiaccio diventa estetica da ufficio. In un contesto di “datificazione”, per me la pittura è un estremo atto di resistenza, di emersione fuori dalla piattaforma, dal controllo, dalla binarietà, dalla successione temporale degli eventi. La pittura rimane la pratica più intima, dove espongo la mia memoria e sensibilità.

Alcuni dei riferimenti nelle tue opere sono espliciti (penso a videogames come The Sims). Tuttavia, trovo che la tua pittura non si rapporti solo a quel tipo di immaginario, ma guardi anche ad altri autori. Quali sono gli artisti che, in un modo o nell’altro, hanno avuto un’influenza sulla tua formazione?
Giovanni Segantini, per aver sfondato il rapporto simbolico tra naturale e umano. Miltos Manetas per la familiarità delle sue immagini. Erwin Wurm, per la sua libertà di connessione tra corpo, spazio ed oggetto. Theo Triantafyllidis, per aver sovrapposto immaginazione e realtà in un’unica trama. Gazira Babeli, per il mistero e l’irruenza delle sue performance. Cecile B. Evans, per l’onda d’urto con la quale affronta emozioni e sentimenti. Eva e Franco Mattes per follia e genialità. Jon Rafman, per l’affermazione dell’oblio, dell’onirico, del disgusto. Matthew Barney, per l’ambigua relazione con il corpo. Sophie Calle, per aver messo in gioco la relatività dell’identità, infine alter-ego.
Il tuo lavoro è caratterizzato da una forte riconoscibilità. Naturalmente questo può essere un punto di forza, ma può portare anche a una forma di appagamento paralizzante. Come pensi possa evolvere la tua pratica?
Una parte sostanziale del processo che mi porta alla realizzazione di ogni opera avviene in programmazione o più in generale nelle modificazioni dei software (videogiochi o opensource). Vedo questa pratica come atto performativo, rivelando i limiti e il potenziale dell’architettura dei software, dello spazio deterministico degli utenti. In tal senso mi piacerebbe poter rendere più indipendente questo tipo di operazioni, e concentrarmi su un’estetica data di risorse (estensioni, processi informatici), più che dal contenuto visivo. In molti progetti il linguaggio e la componente testuale diventano fondamentali: vorrei muovermi più nettamente verso questa direzione poetica. Nell’ultimo cortometraggio, SOLO, ho approfondito l’aspetto sonoro/musicale tanto da diventare quasi un secondo protagonista in relazione al personaggio principale. Di volta in volta mi interessa approfondire o prendermi cura di aspetti nuovi o diversi che successivamente vengono integrati nella ricerca.
Nonostante la giovane età, il tuo percorso è già costellato di mostre e riconoscimenti. Immagino però rimanga difficile per un’artista nemmeno trentenne vivere del proprio lavoro. Cosa significa essere un’emergente oggi in Italia e come riesci a districarti?
Emersione! L’aspetto più complesso è determinato dal linguaggio e dal valore cronologico che diamo al tempo, artista emergente e artista affermato. Nel mio pensiero rivendico un disordine cronologico, se posso tendo a dissociarmi da questa distinzione politica, perché il pensiero ne sarebbe svantaggiato. Dal punto di vista pratico ne sono ovviamente coinvolta, è necessario trovare delle alternative per poter rendere possibile e sostenere economicamente il proprio lavoro, il mondo dell’arte ha un pavimento estremamente scivoloso. Nel mio caso lavoro anche come sviluppatrice web, e per quanto mi appassioni e possa rientrare nella visione della mia pratica artistica, è un confronto frustrante con una realtà, in Italia, che trovo limitante e che rallenta profondamente lo sviluppo artistico.







Chi è Federica Di Pietrantonio
Federica Di Pietrantonio è nata nel 1996 a Roma, dove attualmente vive e lavora. Nel 2019 si laurea in pittura presso la RUFA di Roma, per poi svolgere la sua tesi al KASK di Ghent, in Belgio. Dal 2018 al 2024 è parte dell’artist-run space Spazio In Situ, a Roma. Nel 2020 riceve il premio “Emergenti” di Fondazione Cultura e Arte, nell’ambito della XIII edizione del Talent Prize promosso da Inside Art, di cui è finalista anche nelle edizioni 2021, 2022 e 2024. Nel 2021 viene selezionata per la residenza Superblast alla Manifattura Tabacchi di Firenze. Nel 2022 ha partecipato a VRAL #49 (Milan Machinima Festival) ed ha partecipato al MEET – Digital Culture Center di Milano in occasione del convegno internazionale The New Atlas of Digital Art. Nel 2023 riceve l’invito per una residenza presso SODA – School of Digital Arts (Manchester) in collaborazione con la Quadriennale di Roma; nello stesso anno un suo film viene selezionato per Oberhausen Short Film Festival e partecipa alla residenza VISIO de “Lo Schermo dell’Arte”. Sempre nel 2023 viene menzionata al premio Conai e al VDA Award. Nel 2024 viene nominata tra i migliori artisti digitali su Artribune, co-fonda studio kāma e vince il Videocittà Awards, categoria videoarte.
Saverio Verini
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