Raccontare l’arte. E se il problema fosse lo storyteller piuttosto che lo storytelling?

Prosegue il nostro dibattito sulla comunicazione dell’arte: è la volta di Giovanni Carrada, autore del libro “Perché non parli?”, che si chiede quale sia il ruolo dello storyteller nella società odierna

Entriamo nella chiesa di San Luigi dei Francesi, a Roma, per vedere i capolavori di Caravaggio nella Cappella Contarelli. L’occhio si posa sul più insolito dei tre: La vocazione di San Matteo. Che sia bellissimo, lo vediamo da soli. Uno storico dell’arte ci spiegherebbe che fu realizzato fra il 1599 e il 1600 e che si tratta della prima grande commessa romana di Caravaggio. Ma queste sono informazioni asettiche, filologiche, e la stragrande maggioranza di noi sente di poterne fare tranquillamente a meno, e le scorderà subito. Perché l’opera ci parli, prima di tutto abbiamo bisogno di conoscere la storia che ispirò Caravaggio. Matteo è un pubblicano, cioè un esattore delle tasse per conto dell’impero romano, dunque una figura malvista, un collaborazionista. Eppure la sua vocazione avviene in modo sorprendentemente semplice: Gesù, passando, lo vede seduto al banco delle imposte e gli dice semplicemente: “Seguimi“. E lui “si alzò e lo seguì“, abbandonando in un istante professione, ricchezze, e tutto quello che era stato fino a quel momento.

San Matteo e la chiamata divina

Grazie a questa storia il dipinto è già più interessante, ma comincia a diventare interessante davvero se ci viene svelato il suo significato religioso: una cosa ovvia all’epoca di Caravaggio, quando la vocazione era un’esperienza relativamente comune, oggi molto meno. La chiamata divina a compiere una precisa missione è l’inizio e l’essenza di ogni vocazione, ed è una forza misteriosa che spinge a trascendere l’interesse personale, a rispondere a qualcosa di più grande di sé, a scoprire ciò che si è appunto “chiamati” a essere o fare, a superare quelli che immaginiamo essere i nostri limiti. Noi la conosciamo come cristiana, ma forme simili di chiamata esistono anche in altre tradizioni: ebraismo, Islam, buddismo, induismo. E se non siamo religiosi, anzi alla parola “religione” abbiamo già smesso di ascoltare? Forse ci farebbe piacere che qualcuno ci suggerisse che in realtà chiunque di noi può a un certo punto della sua vita sentire un’analoga “chiamata” a qualcosa di speciale, che solo noi possiamo fare. Anche in un contesto assolutamente laico: può essere la vocazione a un mestiere, a una causa, all’arte o alla scienza.  

La vocazione e la salvezza

Di più, la “chiamata” può essere la scoperta del senso della propria vita. Il grande psichiatra austriaco Viktor Frankl, sopravvissuto all’Olocausto, aveva notato che ad Auschwitz non sopravvivevano i più forti, ma chi pensava di avere una missione da compiere nella propria vita. Sviluppò così una visione dell’esistenza umana “felice” centrata sulla ricerca di significato: ogni persona ha una missione unica e irripetibile nella vita, un compito specifico che attende di essere scoperto e realizzato. Ma “non siamo noi a porre domande alla vita, ma è la vita che interroga noi“. Dall’interrogazione alla chiamata, il passo è breve. Possiamo scomodare addirittura Socrate, perché per cercare di capire a che cosa siamo chiamati dobbiamo conoscere noi stessi: un compito che può prendere un’intera vita. Ecco allora che il gesto di Matteo nel dipinto di Caravaggio, quell’indice rivolto verso il proprio petto come a dire “Stai chiamando me?”, comincia a parlarci davvero. E a questo punto, chi se la scorda più, la Cappella Contarelli?

Caravaggio, Cappella Contarelli, 1599 1602. San Luigi dei Francesi, Roma
Caravaggio, Cappella Contarelli, 1599 1602. San Luigi dei Francesi, Roma

L’importanza di comunicare l’arte

Un’opera d’arte acquista un senso e parla solo se l’artista e il suo pubblico condividono una storia. Se non la condividono, o non la condividono più, bisogna raccontarla di nuovo e renderne evidenti i significati. Perché sono i significati l’elemento della storia che può davvero connettere le persone con l’opera. E questo è il punto cruciale: le storie possono essere più o meno note, ed è il compito degli storici dell’arte studiarle e raccontarle, ma identificare i significati che hanno qualcosa da dire alle persone è tutta un’altra cosa. Anzi, forse non c’è neppure tutta questa consapevolezza del fatto che vadano identificati, e che la storia debba essere raccontata in modo tale da spiegarli o suggerirli, perché le persone possano trarne i propri significati personali. Eppure creare e comunicare significati è l’essenza dell’arte. Nei prossimi anni avremo più bisogno che mai dell’arte – di tutte le arti – perché l’incontro con le intelligenze artificiali ci costringerà a ridefinire chi siamo e ad affrontare cambiamenti che faranno impallidire quelli dovuti al digitale. Senza significati, e senza significati condivisi – la condivisione di un significato è uno dei compiti principali di una storia – rischiamo di non sapere neppure più chi siamo. Per questo ci servirà l’arte del presente ma anche quella del passato. Sia perché i significati durano, o possono essere reinterpretati per i tempi nuovi, sia perché la mente umana rimane sempre la stessa.

Il ruolo dello storyteller

Lo storyteller non deve quindi essere solo un narratore, ma anche un suggeritore di significati più grandi e diversi, capaci di mettere in moto la curiosità e l’immaginazione delle persone. Questo è un lavoro che va ben oltre quello dello storico dell’arte, perché richiede di saper attingere anche da altri campi: storia, religione, psicologia, scienza, attualità… 
Lo storyteller però non è bravo se è un tuttologo, soprattutto in un’epoca in cui ogni conoscenza è a portata di click. Lo storyteller è bravo se sa dove andare a cercare, a chi chiedere, con chi confrontarsi. È bravo se è curioso, si sa porre le domande giuste, si sa sintonizzare non solo con l’arte ma anche con il pubblico reale che la guarderà. È bravo se ha passione, se è capace di stimolare le persone, se è pronto a esporsi esplorando significati più audaci. Forse una figura così non ce l’abbiamo ancora. O forse è un mestiere che ogni interprete dell’arte dovrebbe imparare.

Giovanni Carrada

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