La parte maledetta. L’installazione di Francesco Albano a Palermo

A partire dalla sua ultima installazione nello spazio L’Ascensore di Palermo, Marcello Faletra ci conduce nella pratica artistica di Francesco Albano, tra memoria, cecità e mutilazioni

Una vecchia foto di un giocatore di biliardo trovata per caso, diventa il soggetto di una installazione, che prolunga la sua scena in un improbabile biliardo. È questa l’ultima opera di Francesco Albano (Oppido Mamertina, 1976) allestita presso lo spazio espositivo L’Ascensore a Palermo per la cura di Daniela Bigi, dal titolo The Weakest, Most Insignificant Wind is a Tornado (la mostra chiuderà il 24 aprile 2025). 

Il caso nell’opera di Francesco Albano

Si tratta come suggerisce la curatrice di una “macchina scenica”. La scelta del colore non è casuale: il blu cobalto. Un colore freddo che viene da lontano. In questo biliardo, metafora dell’alea (il caso), può accadere di tutto. Il destino sfugge al calcolo del giocatore e l’incertezza ha la meglio su di esso. Tra il giocatore e il caso si genera una dissimmetria evidente. L’alea vanifica il calcolo, rende inutile la regolarità, mortifica il dominio sull’opera. In un secondo può cambiare il corso delle cose. È in questa circostanza che si affaccia l’idea di catastrofe: dal gioco al fallimento il passo è breve. In questa installazione il ricordo come accidente si deposita per delega in oggetti o immagini. Inoltre, l’installazione mostra una straordinaria vicinanza con le memorie di cieco indagate dal filosofo Jacques Derrida in occasione di una mostra al Louvre nel 1990. Un passaggio di queste memorie ci introduce nel cuore dell’opera di Francesco Albano: “Per accidente, e a volte sull’orlo dell’accidente, mi accorgo di scrivere senza vedere. Non con gli occhi chiusi certo. Ma aperti e disorientati nella notte”. Se sostituiamo la parola notte con memoria entriamo nel corpus dell’installazione di Albano.

Francesco Albano, tra memoria e cecità

È noto che la metafora dei ciechi è servita da lezione morale e politica nel passato. Un celebre dipinto di Pieter Bruegel esposto al Museo di Capodimonte a Napoli – oggi di grande attualità – ci mostra tutta la crudezza di questa metafora. Tuttavia, c’è anche una cecità che investe la memoria. Ed è questa che segna gran parte dell’indagine di Francesco Albano. Poiché questa cecità si scontra con la nostra impotenza temporale di fronte al passato e all’esperienza del male. In questo scenario l’occhio scopre e cerca un possibile catalogo di dettagli, di oggetti parziali, di immagini che sollecitano un retroterra dissolto, che nella sua ricerca diventa una stereoscopia dell’impronta mnemonica (la macchina scenica). In altre parole, Francesco Albano ci dice che è un orfano di memorie, come quando si perdono i propri genitori. Qui l’immagine del giocatore che campeggia su tutta l’installazione diventa un operatore non solo di visualità, ma di libere associazioni. Attraverso il gioco, Albano va indietro nel tempo, fino a far coincidere memoria e accidente, memoria e caso, memoria e avventura… Infatti un gioco che mostrasse solo la giocosità in se stessa, senza sollecitare l’aspetto drammatico della sfida, sarebbe un gioco noioso. Se noi eliminiamo l’elemento accidentale e ludico dalla vita, questa sarebbe una esistenza banale. Del resto su questo contro-tempo della memoria si è basata la grande mostra ospitata recentemente a Istanbul (novembre 2024) presso la galleria Oktem Aykut, dove Albano ha trattato i resti di corpi in una sequenza di protesi an-ortopediche, metafora di protesi mnestiche che somigliano a un sommario di decomposizione, come recita un celebre libro di Cioran.  È in questo scenario che Francesco Albano mostra brandelli di corpi e immagini che sono stati sottoposti ad uno stato di indeterminazione, di discontinuità (la catastrofe imminente). Ci mostra un catalogo degli accidenti e l’evoluzione temporale (mnemonica) di esperienze biografiche. Mostra ciò che resta dell’erosione della figura umana (Francesco Albano ha trascorso parte della sua vita in varie città del mondo (Buenos Aires, Istanbul, Varsavia).

Vedere con il corpo e rigenerare trasgredendo

In questo teatro della crudeltà, che si snoda tra il visibile e l’invisibile, non è più sufficiente l’occhio per vedere. Occorre che il corpo parli, diventi strumento di comunicazione. Ed è ciò che in altre sue installazioni, realizza con brandelli di corpi, che hanno perso la loro somiglianza per diventare ammassi informi, che agiscono come operatori di un’anamnesia ritrovata. È come se lo spettatore si trovasse davanti a un disordine delle forme e della figura umana ideale come astrazione platonica. Ecco, allora, come i resti di questa avventura ci parlano della loro segmentata esistenza… Tracce accidentali, segni ritrovati, simboli smemorati. Tutto un repertorio di oggetti e immagini dove il quotidiano è strappato alla cronologia e fatto precipitare nell’intemporalità anacronistica (non è convenzionale), e inattuale (è fuori dalle logiche propagandistiche dell’arte); in altre parole approda a un contro-tempo – un fuori norma – della memoria e dell’esperienza artistica indissociabile dalla vita. La parola ortos, da cui deriva la parola “ortopedia”, di derivazione greca, è un concetto normativo, mostra l’errore attraverso lo scarto e la differenza. È una parola che cerca di assimilare il diverso al luogo comune. Ma se questo termine ha un senso nella medicina, diversa è la sua applicazione nell’arte, dove il fuori-cornice o l’extra-artistico – la trasgressione delle convenzionalità – è un elemento di rigenerazione. È in questa soglia tra la norma e l’antinorma che i resti anatomici di Albano sono un sommario di misfatti, violenze, oggetti (pelli, ossa, organi) che sfuggono ad una definizione, se non per disperazione: si tratta della convertibilità di apparizioni accidentali in oggetti allucinatori. Senza forzare paragoni siamo davanti a una specie di Zattera della Medusa della memoria: la domanda di salvezza è affidata al caso, come suggerisce l’installazione esposta a Palermo.

Francesco Albano nel suo studio
Francesco Albano nel suo studio

La mutilazione nella storia delle arti e in Francesco Albano

Ma occorre cogliere meglio il senso delle mutilazioni nell’arte, scenario in cui si inscrive la ricerca di Albano. Citiamo sinteticamente: gli storpi di Bosch; i ciechi di Breughel; i torturati e gli storpi di J. Callot; il quadro di Goya dove Saturno divora il figlio; i santi che portano la loro testa tagliata; sant’Agata alla quale i carnefici hanno tagliato i seni; i resti di corpi ghigliottinati di Gericault; e non è da trascurare che il capitano Achab di Moby Dick, ha una gamba protesica; e più vicino a noi abbiamo le pelli e le feltri di Beuys, i dislocamenti anatomici di Bacon, ecc. È nota l’ironia, tenera e feroce ad un tempo, di fronte alle mutilazioni. È la stessa gioiosa ferocia che incontriamo in un poema del poeta surrealista Robert Desnos che evoca “gli spiriti maligni ai quali era stata tagliata la testa”, e per ciò chiamati “i quattro senza testa”. Qui la scena dell’arte diventa la scena del crimine.
Questo Sommario di decomposizione o mutilazione, potrebbe riassumere l’intero percorso artistico di Francesco Albano. Difficile collocarlo nella sola scultura. Di fatto, tutti i suoi lavori mutano lo spazio circostante a partire dall’irruzione del dolore, che ha generato corpi mutilati, popolato da avvertimenti vaghi e da memorie sepolte… Si tratta di strane anatomie, fino al disgusto. Certo, la carne fa eco allo stare in buona salute. Ma quando è sottoposta al martirio, di essa ci restano lembi assemblati in uno scenario infernale… Il punto critico delle sue installazioni è proprio quell’orrore a volte evocato (biografico) altre volte politico – è vissuto in Argentina con le immagini ancora vivide degli orrori della dittatura – che segna gran parte tutta la sua produzione artistica.

Francesco Albano. Nessuna sintesi del corpo

A differenza degli azionisti viennesi che agivano direttamente sul proprio corpo (Schwarzhogler, Brus, ecc.), Albano trasfigura il corpo in oggetti parziali, in frammenti o porzioni di corpo… si tratta di ciò che resta del corpo, e della sua presunta unità immaginaria. Tutte le sue installazioni insistono su questo punto: non c’è una sintesi del corpo, o un’unità astratta. Ogni segmento, ogni tratto anatomico, è già il corpo con tutte le sue rovine addosso. In altre parole ciò che è in gioco nelle sue installazioni, e soprattutto l’ultima, The Weakest, Most Insignificant Wind is a Tornado, è proprio quello dello sguardo mancante o della memoria (cieca) che insiste sulla scena della visibilità. Scoprirsi allo stesso tempo estraneo e tuttavia dentro un bacino di memorie, è proprio il dramma che Albano mette in scena. D’altra parte la curatrice della mostra – Daniela Bigi – osserva: “…troviamo sempre quello che stavamo cercando”. E inventare, dal verbo latino ‘invenire’, significa per l’appunto “trovare”, “incontrare”. Infatti: la memoria in tempesta non vede orizzonti, né terre, ma, grazie all’immagine ritrovata per caso, essa trova un approdo provvisorio. 

Marcello Faletra

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Marcello Faletra

Marcello Faletra

Marcello Faletra è saggista, artista e autore di numerosi articoli e saggi prevalentemente incentrati sulla critica d’arte, l’estetica e la teoria critica dell’immagine. Tra le sue pubblicazioni: “Dissonanze del tempo. Elementi di archeologia dell’arte contemporanea” (Solfanelli, 2009); “Graffiti. Poetiche della…

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