Il disegno come testimonianza. Intervista alla mitica gallerista Antonia Jannone
Tra le donne che hanno contribuito a fare la storia delle discipline legate al progetto in Italia ci sono anche alcune galleriste illuminate e coraggiose. Abbiamo intervistato Antonia Jannone, che quasi 50 anni fa ha capito il potenziale dei disegni di architettura, in occasione di una mostra-tributo a Gaetano Pesce durante la design week di Milano

A quasi novant’anni e con oltre mezzo secolo di carriera alle spalle, Antonia Jannone è una gallerista quasi mitologica. Nella seconda metà degli anni Settanta ha avuto l’intuizione, per niente scontata in quel momento, che i disegni degli architetti, di solito nascosti nei loro studi, potevano essere considerati opere d’arte di per sé, al netto della loro funzione, e proposti al pubblico come tali. Il primo documento d’epoca repertoriato sul sito della galleria, che oggi, e da molto tempo, ha la sua sede fisica in Corso Garibaldi dopo un breve periodo a Brera, è un volantino firmato Grafica ’80 (un progetto di edizioni di grafica lanciato in quegli anni con Maria Freccia) con litografie di Aldo Rossi, Carlo Aymonino, Massimo Scolari e altri grandi nomi del tempo.
La storia della galleria Antonia Jannone e il ruolo dei disegni di architettura
Passare in rassegna le mostre allestite più di recente, invece, permette di ragionare sul fatto che il disegno a mano, sganciato dalla sua utilità pratica poiché soppiantato dal computer in gran parte delle attività quotidiane, rimane vivo e vegeto nella pratica di molti progettisti che vi si dedicano con atteggiamenti e intenzioni diverse. Far correre la matita o il pennello sulla carta può essere una sorta di autoterapia, un “tramite per capire le cose” come nel caso di Mario Trimarchi e delle sue Barricades, architetture minime che esploriamo il tema degli equilibri precari, un modo per lavorare in maniera meno razionale e più intuitiva abbracciando le imperfezioni della materia come ha fatto Michele De Lucchi nel suo lavoro sui Legni cuciti, o ancora l’esplorazione di personalissime utopie.

L’architettura rivoluzionaria di Gaetano Pesce in mostra durante la Design Week
Dall’8 al 13 aprile, la galleria rende omaggio a Gaetano Pesce, scomparso lo scorso anno proprio a ridosso della Design Week, con una mostra co-prodotta con il suo studio di New York e con la società di produzione Contemplazioni, che due anni fa ha realizzato l’installazione Vieni a vedere. Gaetano Pesce. Una festa per l’architettura: modelli, pensieri e disegni fa emergere l’approccio del maestro, basato su una serie di atti sovversivi e su un continuo interrogarsi sul sistema in cui si è trovato a lavorare, e mette in luce alcune porzioni meno note della sua parabola. Una di queste è relativa all’Oman e al rapporto instaurato con questo paese nell’ultimo anno della sua vita, a partire da un viaggio alla scoperta della foresta di Wadi Dakwah e dei suoi alberi di Boswellia. La fascinazione per le loro ramificazioni molto particolari si è poi concretizzata nelle tre sedute gelatinose e colorate della collezione Oman Chairs.
Intervista ad Antonia Jannone
Lei ha alle spalle una carriera lunghissima e ha da poco ricevuto il Diploma d’onore della Triennale in qualità di “gallerista che per prima in Italia ha creduto nel valore del disegno di architettura come testimonianza culturale della contemporaneità”. Se lo aspettava?
No, è stata una vera sorpresa. Però è un premio graditissimo perché mi sembra giusto che anche gli altri conoscano la storia della galleria e sappiano che esiste dagli anni Settanta. Ho cominciato con il primissimo spazio in via Lanzone, poi mi sono spostata in via del Carmine dove sono rimasta per quasi cinque anni e infine qui, nella sede attuale in Corso Garibaldi.
Ci racconta qual è stato il punto di partenza? Come ha capito che i disegni degli architetti potevano avere un valore diverso da quello tecnico-funzionale?
Quando mi sono trasferita a Milano ho conosciuto degli architetti e ho potuto visitare i loro studi. Mi sono accorta che i loro disegni erano molto dettagliati e curati, belli insomma, e mi è venuta l’idea di farli vedere a un pubblico vasto per mostrare che cosa si nascondeva dietro a ogni progetto e architettura. Ho visto la bellezza di queste opere e ho avuto voglia di comunicarla anche ad altre persone.
Come sono cambiati, secondo lei, i disegni degli architetti e la loro funzione con l’evoluzione della tecnologia? Pensiamo ai programmi informatici, prima, e in tempi più recenti anche all’intelligenza artificiale.
Ci sono ancora pochissimi architetti che disegnano a mano (Massimo Scolari è uno di questi, tra quelli che conosco). È un peccato: credo si sia persa la poesia del disegno a mano libera, che è più artistico che tecnico. Non c’è paragone tra i disegni a mano e quelli realizzati al computer. Alle tecnologie più recenti, all’intelligenza artificiale, non sono ancora arrivata.
La carriera di Antonia Jannone
Quali sono gli elementi che fanno scattare il suo interesse?
Non essendo architetto sono attirata soprattutto dalla rappresentazione e dalla qualità grafica dei disegni. È un insieme di fattori che parte dall’emozione visiva, dopodiché mi informo e approfondisco. Io mi entusiasmo e mi “innamoro” di ogni progetto, poi naturalmente si presentano altre occasioni e questo meccanismo si può ripetere.
Nel corso degli anni ha avuto modo di intrecciare dei rapporti di amicizia con alcuni dei grandi maestri del design e dell’architettura. Quali ricorda con più affetto?
Il primo architetto che ho conosciuto è stato Massimo Scolari, frequentavo il suo studio e lo guardavo disegnare. Poi direi Ettore Sottsass che per un periodo gradevolissimo ha lavorato qui vicino, in uno spazio affacciato su questo cortile. C’è una foto che lo ritrae con tutti i suoi collaboratori, tra loro si riconoscono dei giovani Christoph Radl, Nathalie Du Pasquier e altri con cui lavoro ancora. E poi la Gae, Gae Aulenti, che ho conosciuto in un momento in cui andavo spesso a Parigi e lei stava lavorando alla conversione della Gare d’Orsay. Sono stati degli incontri amichevoli che mi hanno aperto la porta su nuovi fronti di lavoro.
E Gaetano Pesce? Com’era il vostro rapporto?
Ricordo che a Roma per incontrarlo la prima volta ho dovuto fare un po’ di anticamera, ma poi mi ha dedicato tutto il tempo di cui avevo bisogno. Il nostro incontro qui a Milano fu mediato da Silvana Annicchiarico, allora Direttrice del Triennale Design Museum, e suo è il testo del catalogo della mostra dedicata ai disegni di Gaetano che abbiamo esposto in galleria nel 2015. In quell’occasione Pesce scrisse un testo meraviglioso sull’architettura. Era imprevedibile, una persona giocosa, ironica e affettuosa. E, come sosteneva Sgarbi, è stato l’ultimo grande inventore di forme.





Cosa è cambiato invece nel suo lavoro di gallerista dal 1976 a oggi?
È un percorso che fino a poco tempo fa è stato abbastanza omogeneo. Adesso, per lo meno secondo la mia esperienza personale, c’è un pubblico meno interessato e più distratto, forse perché preso da altre cose. Comunque, le mostre sono sempre molto visitate e questo mi dà la voglia di continuare.
Giulia Marani
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