Un’opera di videoarte racconta l’amore impossibile tra una lacrima e un pavone bianco
Parliamo di “The six seasons of the while peacock”: opera dell’artista albanese Driant Zeneli, che sarà realizzata in Bangladesh per poi viaggiare in varie location, compreso il Museo Castromediano di Lecce. In attesa di vederla conclusa, abbiamo intervistato l’autore

La favola dell’amore impossibile tra una lacrima ed un pavone bianco, incapace di volare, costituisce l’impianto narrativo dell’opera video di Driant Zeneli (Scutari, Albania, 1983), che sarà realizzata in Bangladesh– nel Parlamento di Dacca, uno dei più imponenti edifici governativi del mondo firmato dall’architetto Louis Kahn – per viaggiare in diverse location internazionali, tra le quali il Museo Castromediano di Lecce. Il lavoro di Zeneli, che indaga il senso di impotenza e di fallimento della psychè, rientra nell’ambito di The six seasons of the white peacock, il progetto di cooperazione internazionale vincitore della tredicesima edizione dell’Italian Council e recentemente presentato al museo leccese. In esclusiva per Artribune, abbiamo intervistato l’autore per approfondire la genesi del suo lavoro.
La genesi dell’opera di Driant Zeneli
Come è stata concepita la tua opera-video?
Due anni fa sono stato invitato ad esporre da Diana Campbell, direttrice artistica della Biennale internazionale Dhaka Art Summit, organizzata dalla Fondazione Samdani. Dopo aver visto la mia trilogia The Animals. Once upon a time… in the present time, realizzata utilizzando l’architettura brutalista delle istituzioni dei Balcani come set per delle favole, e che avevo esposto nel 2022 per Manifesta, a Prishtina, Diana mi ha proposto di creare un progetto partendo dal capolavoro di architettura brutalista che è il Parlamento del Bangladesh, firmato da Louis Kahn negli Anni Settanta e concluso nel 1982-83, dopo la sua scomparsa. È iniziato tutto da qui.
Quali sono e saranno le fasi di realizzazione del tuo lavoro?
Tutto parte dal Parlamento di Dacca che rappresenta il potere, l’unione, la coalizione. È una struttura magica. Poi, se tutto va bene, arriverà a settembre al Museo Castromediano con una mostra in esclusiva e successivamente in altri musei, come lo spazio di Art House a Scutari, fondato da Melissa Paci ed Adrian Paci, e il Museo Nazionale di Arte Contemporanea ad Atene. Infine entrerà a far parte della collezione permanente del Museo civico di Castelbuono, in provincia di Palermo.
Fino adesso a che punto siete arrivati?
Dopo la fase di ricerca e di creazione, dai costumi alle scenografie – ci stiamo riferendo alla cultura barocca sviluppata in Italia – ora siamo in fase di costruzione del set e ad inizieremo presto le riprese video. Seguirà la fase di post-produzione con il montaggio del film, che avrà una colonna sonora composta appositamente dal Conservatorio di Lecce e che ricreerà le sei stagioni del Bangladesh. È un processo di collaborazione molto delicato, perché quando si parla di cultura barocca e cultura bengalese siamo a migliaia e migliaia di anni di distanza. Ma tutto si giocherà sulla combinazione visuale e musicale di questi questi due aspetti.
Il linguaggio artistico di Driant Zeneli
Perché scegli sempre la favola come strumento del tuo linguaggio?
È un modo spontaneo, non una formula, per raccontare le trasformazioni socio-politiche. La favola è sempre un elemento di allegoria per diffondere non una morale – perché non m’interessa la morale delle favole – ma la loro costruzione narrativa, il “c’era una volta” ed i suoi parallelismi con il presente.
Quali fiabe prediligi?
Spesso mi ricollego al mondo animale, a storie ambientate non in boschi o fiumi, ma in architetture costruite dall’uomo. Per esempio, in questa favola, narro la storia del pavone bianco che non può volare, ma in tutti i 20 anni della mia ricerca ricorre, fin dall’inizio – negli animali che popolano le mie trilogie e i miei film – il tentativo di staccarsi dalla Terra. Non so da dove derivi quest’ossessione per la gravità, questa riflessione sul rapporto ambivalente che abbiamo con essa. Credo più nelle visioni che nell’ispirazione. Il mio approccio alla creazione di un’opera non è quello di partire dalla ricerca. Piuttosto, parto da input, la ricerca arriva dopo, non lavoro a tavolino. Credo in queste energie, in questi istinti, queste visioni e mi sento più vicino alla mitologia e al paganesimo che alle religioni. Il mio lavoro è un processo aperto in cui co-creo, collaboro con altre persone. Come in questo caso: in Bangladesh sto collaborando con cinque giovani artisti, e ognuno di loro ha un ruolo essenziale nella costruzione della favola.
Cecilia Pavone
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