Arte e storytelling: il martello di Michelangelo è la post-mediazione
Il valore della co-produzione dello storytelling nella fruizione del patrimonio culturale. Una risposta al ciclo di interventi su arte, patrimonio e comunicazione, innescati da Antonio Spadaro

Nel saggio Performative Monuments (2014), Mechtild Widrich affronta l’”invisibilità” del monumento pubblico, sostenendo che le spade sguainate degli eroi e le statue equestri non producono alcun effetto sul “pedone con il suo hot dog”. Questa riflessione solleva temi affini a quelli sviluppati da Antonio Spadaro nel suo intervento sulla mediazione del patrimonio culturale, poiché, come il Mosè di Michelangelo, anche il monumento di Widrich appare muto e necessita di una strategia di attivazione che lo colleghi al tessuto sociale contemporaneo.
Il potenziale estetico del monumento
In questo senso, l’autrice propone la riabilitazione del potenziale estetico del monumento tramite pratiche performative, che restituirebbero centralità al pubblico e ne riattiverebbero la capacità di generare coscienza storica. Traslando questa intuizione in ambito museografico, occorre chiedersi quale possa essere il corrispettivo di tale attenzione al gradiente estetico-performativo, nel contesto dell’attivazione del patrimonio culturale, al fine di avanzare una possibile elaborazione di ciò che intenderemo con post-mediazione.
In Perché non parli? (2025), Giovanni Carrada riprende la definizione del museo data da ICOM e ne sottolinea l’importanza dell’interpretazione del patrimonio culturale tra i servizi resi al pubblico. Tuttavia, questa si limita a un processo di trasmissione unidirezionale e verticale del sapere, chi sa continua a essere separato da chi deve imparare, perpetuando un’impostazione didattica che non considera il visitatore come soggetto intellettualmente attivo.
Percorsi inediti sulle opere d’arte
Tale impostazione, ampiamente criticata da Jacques Rancière in Le maître ignorant (1987), presuppone un contenuto fisso e la necessità di un codice standard per trasmetterlo. Così, la mediazione si riduce a un dispositivo civilizzatore che distingue tra cultura alta e bassa, sapere e ignoranza.
Se è vero che la questione dell’opera che-non-vuol-parlare si inserisce nella tradizione italiana che tende a conservare piuttosto che a mediare (Carrada, 2025), è altrettanto urgente riflettere su come la mediazione tradizionale pone il fruitore nei riguardi dell’opera, per superare la dicotomia tra maestro sapiente e allievo ignorante. Piuttosto, andrebbe intercettata e coadiuvata l’erranza ermeneutica del visitatore, favorendo lo sviluppo di percorsi individuali inediti, non ancorabili a un percorso critico rigido e scolastico.

Le opere (non) parlanti da Michelangelo al Dada
Pensiamo alle escursioni dadaiste, come quella del 1921 a Saint Julien le Pauvre: l’obiettivo non era fare un tour di Parigi per ammirare gli “eroi ammutoliti” di Widrich, ma intraprendere un percorso inedito, insolito, mai definitivo. Trasferire questo impianto all’interno della comunicazione museale vorrebbe dire ampliare il processo interpretativo, dove il ruolo intellettuale del fruitore innesca l’attivazione del patrimonio stesso.
La mediazione come post-mediazione
La mediazione tradizionale, di matrice pedagogica, offre un racconto chiuso che vincola l’esperienza alla spiegazione. Qualsiasi riferimento a un contenuto fisso e immutabile sterilizza la produzione “schizofrenica” del significato, costituendo una mediazione che, amputando il senso, ne limita le potenzialità.
Chiarire questo aspetto è cruciale nell’approccio ai new media, per evitare di limitarsi a “dotare le vecchie cose di nuove antenne”, senza scardinare il rapporto di potere tra chi detiene il sapere e chi lo riceve. Inoltre, la postura umanistica alla base di una certa idea di trasmissione del sapere – come discusso da Stefano Moriggi e Mario Pireddu in L’Intelligenza Artificiale e i suoi fantasmi, 2020 – interpreta l’interazione tra uomo e macchina in termini drammatici, contrappositivi e antagonistici.
Sostenere che i tratti distintivi della società ipermoderna ostacolino la corretta ricezione del patrimonio culturale è una posizione ideologica che limita l’uso degli strumenti attuali, che richiedono una riconsiderazione dei ruoli. La stessa logica del consumo – basata su algoritmi che raccolgono dati e preferenze su piattaforme come Amazon – potrebbe favorire una fruizione personalizzata dell’opera.
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Concepire una mediazione diversa significherebbe oltrepassare un modello di trasmissione del sapere ostile al pluralismo interpretativo. Oggi, più che mai, non è utile imporre tassonomie sterili e autoreferenziali, ma generare un flusso continuo di interferenze semantiche capaci di scomporre, trasformare e ricomporre il tessuto delle interpretazioni.
In questa direzione, sarebbe stimolante attingere alle teorie quantistiche di Karen Barad, concependo la mediazione come un processo «intra-attivo» che moltiplica le vie del senso.
Ciò comporterebbe il superamento della retorica dell’ecfrasi come descrizione filologica, trasformando la mediazione in uno spazio di co-produzione dello storytelling che valorizza il pluralismo del pubblico.
Il caso Panorama XIX alla Galleria Nazionale di Roma
Un esempio significativo della direzione della post-mediazione proposta è la mostra Panorama XIX (2023) alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, curata da Cristiana Collu, ex direttrice del Museo.

In quell’occasione, il salone centrale riproponeva un re-enactment delle modalità espositive bulimiche dei salon ottocenteschi. Il significato, però, non si cristallizzava nel singolo dettaglio, quadro o autore, ma nel fruitore, che diventava il terminale di un’esperienza percettiva totale, simile alla corsa frenetica al Louvre in Bande à part (1964) di Jean-Luc Godard, citata da Bernardo Bertolucci in The Dreamers (2003), ricordati dai monitor presenti in mostra.
Radicalizzare questa prospettiva, riprendendo il pensiero di Widrich, significa riconoscere che il gradiente performativo risiede nel ruolo attivo del visitatore nella fruizione come deriva interpretativa. Se il patrimonio culturale tace, è il fruitore a doverlo far parlare, trasformando il silenzio in un atto di interpretazione viva, capace di attivare il senso e ridefinirne provvisoriamente il significato.
Alessio Esposito
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