Arte e antropologia. La lingua come rappresentazione del male
Cosa c’entra la demo-etno-antropologia con l’arte contemporanea? I punti di contatto sono molti, e ce li sta mostrando di volta in volta Fabio Petrelli. Che in questo articolo si concentra sulla lingua – il muscolo che abbiamo in bocca, non il linguaggio.
La lingua è un fuoco, è il mondo dell’iniquità.
Posta com’è fra le nostre membra, contamina tutto il corpo e,
infiammata dalla geenna, da fuoco al ciclo della vita.
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Le lingue scarlatte, biforcute e languide delle sagome femminili ed erotiche di Carol Rama (Torino, 1918- 2015), traboccanti da corpi collassati e amputati, evocano una sessualità spregiudicata e primitiva, in cui le vipere del male si nutrono dal corpo stesso delle donne dipinte, dalle madri arcaiche che inglobano in sé le forze ancestrali e sotterranee della vita e della morte.
Un tema, questo, che è enfatizzato nelle scene dipinte nelle Tentazioni di Sant’Antonio del pittore fiamminga Joachim Patinir (Dinat o Bouvignes, 1485 – Anversa, 1524), in cui una strega dagli occhi sbarrati e dalle fauci aguzze e antropomorfe sintetizza la complessa dualità natura-cultura, questioni che saranno alla base delle teorie psicoanalitiche di Freud sul concetto intricato di Eros e Thanatos (Al di là del principio di piacere, 1920).
MALELINGUE
La lingua è un organo complesso, nascosto entro la cavitas oscura e impenetrabile del corpo, e associata per tale motivazione agli aspetti originali, remoti e reconditi dell’uomo nella rappresentazione e interiorizzazione archetipica dell’universo e dei suoi simboli (Carl Gustav Jung, L’uomo e i suoi simboli, 1964). Per questa dicotomia, ha la possibilità in parte di fuoriuscire esternamente, di avere un contatto con il mondo e portare dentro di sé o espellere il male attraverso le parole presagite.
Il concetto complesso di “malalingua”, che nell’immaginario collettivo popolare è associato all’opera dei demoni e delle streghe che evocano ingiurie e perfide maldicenze, è “tagliato” e risoluto attraverso lo strumento affilato delle forbici che liberano dal male, dalla fattura magica e demonica. Queste però devono necessariamente essere nascoste aperte a forma di croce, sotto gli usci, sulle porte, sotto i letti e sui camini, per squarciare e lacerare il cattivo presagio emesso dalle lingue dell’invidia, dal pettegolezzo antico, da una stregoneria domestica sempre in agguato e implacabile.
FORBICI ED ESORCISMI
Le forbici candide e immacolate di Maria Grazia Carriero (Gioia del Colle, 1980) si generano e attingono a una cultura per sentito dire, fatta di bisbigli e maledizioni immobili, di saperi oracolari sibilati tra le lingue della sciagura, nelle quali le forbici usate come strumento per il taglio della “fascinatura magica” evocano una potentissima capacità taumaturgica, al pari di un esorcismo compiuto da una figura agiografica propensa.
Le cesoie evocate dalla Carriero nascono da una conoscenza animistica di cui si è nutrita la religione popolare del meridione d’Italia, fatta di oggetti disposti a espellere il male, il malocchio e la malattia contagiosa.
Nei pellegrinaggi, nei riti curativi e taumaturgici popolari, l’uso della lingua come strumento penitenziale è stato indagato dall’antropologo Lello Mazzacane (Napoli, 1946), che nel rito di San Donato a Montesano nel Salento nel 1971 ha registrato su pellicola le possedute nell’attimo in cui strisciano la lingua a terra all’ingresso del santuario per chiedere la grazia al santo esorcista: San Donato, il guaritore dei malati di mente.
GINA PANE E L’ANTROPOLOGIA
È da questi aspetti reconditi e simbolici, appartenenti agli studi demoetnoantropologici, che l’arte contemporanea, nella propria geografia instabile e mutabile, attinge alle proprie sperimentazioni, di cui sono visibili gli sconfinamenti nei luoghi antropologici del corpo: da un’idea platonica di centralità a una visione periferica e asimmetrica del corpo e delle sue inclinazioni.
In Action Autoportrait (1973), Gina Pane (Biarritz, 1939 – Parigi, 1990) si taglia la lingua facendo sgorgare il sangue dell’accusa e della colpa. Questa performance diviene e si articola come un antico rituale religioso, innalzato sul piano della contemporaneità, in cui il corpo dell’artista diventa lo strumento dell’opera-azione: evidenti sono le tracce di sadismo e masochismo, dove il corpo femminile è manipolato fino all’estremo, in una duplice funzione nella quale la donna è intesa come madre-partoriente e come portatrice di morte, che in sé inghiotte la vita attraverso il sangue bevuto e fuoriuscito dai tagli inflitti dalle lame acute sulla lingua.
IL SADISMO DI PASOLINI
Traslato all’interno di uno scenario tipicamente sadiano, nel 1975 Pier Paolo Pasolini (Bologna, 1922 – Ostia, 1975) genera una visione contemporanea e sadica dell’inferno dantesco, in cui si instaura per centoventi giornate una dittatura sottile e spietata regolamentata da un codice sessuale di supplizi.
La pellicola Salò o le 120 giornate di Sodoma nello specifico trae dall’immaginario collettivo medievale le pene infernali nelle quali si mescolano visioni perverse e incubi primordiali. Il corpo è l’emblema dell’oscenità. Del martirio, la lingua è lo strumento del piacere sessuale, ma anche e soprattutto congegno di affilate torture, in cui i liquidi corporali fuoriusciti assumono una valenza simbolica e spietatamente libidica.
Sono questi i diavoli contemporanei tratti dell’iconografia medievale cristiana dalla lingua rosso fuoco che tormentano i peccatori urlanti che supplicano l’attesa della discolpa. I visi, stremati dal soffocamento dei fuochi e dei fumi infernali, ricordano ai vivi attraverso l’insegnamento moraleggiante dell’arte, la brutalità disumana del peccato. Al potere arcano delle tre Parche della mitologia ellenica, che tessono, avvolgono al fuso e recidono con le forbici la vita, segnandone così l’ineluttabile destino e morte; la lingua demoniaca enfatizzata nell’iconografia di San Giorgio e il drago diviene lo strumento antico per incutere terrori arcaici e apocalittici, in cui l’azione del trafiggere gli abissi della gola, equivale a recidere il male che la lingua simboleggia.
– Fabio Petrelli
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