Una “felice epidemia”. Tiziano e Brescia
Oggi, a uno sguardo superficiale, sembra che tra Venezia e Brescia non ci sia mai stato nulla. Ma per secoli la Serenissima dominò sulla città lombarda che ne subì vari influssi, tra cui quello, dirompente, di Tiziano. Una straordinaria mostra al Museo di Santa Giulia svela i rapporti artistici tra i pittori locali e il Vecellio.
Le opere di Tiziano sono poche (oltre al Polittico Averoldi compreso nel percorso cittadino), ma in alcuni casi mai viste in Italia e, come tutte le altre, selezionate con attenzione perché, come afferma il curatore Francesco Frangi, “bisogna avere le opere giuste” per poter allestire una mostra come quella di Brescia, pensata per far dialogare i dipinti tra loro, per mettere in luce i rapporti tra gli artisti bresciani e il maestro veneziano e per ricostruire i contesti culturali in senso più ampio, in modo da evocare un’epoca straordinaria. Obiettivi conseguiti in pieno, aggiungiamo noi, anche grazie a un allestimento curato e allo stesso tempo accattivante.
UN POLITTICO SCONVOLGENTE
Era il 1522 quando, nella collegiata dei Santi Nazaro e Celso, fu scoperto il polittico commissionato a Tiziano dal vescovo Altobello Averoldi. L’opera rappresentò un autentico spartiacque e provocò reazioni a catena negli esponenti più ricettivi dell’arte locale, che, come dimostrano le biografie e i dipinti protagonisti delle prime sezioni, all’epoca non erano affatto all’oscuro delle novità del cadorino. Dei tre artisti principali, infatti, si sa che da giovane Romanino frequentava il contesto lagunare e presto comparvero nei suoi dipinti campiture cromatiche rivelatrici di una chiara adesione a Tiziano, che si arricchì ulteriormente mediante la permanenza a Padova. Anche Moretto aveva subito il fascino tizianesco, in particolare la vena classicistica, mentre il più anziano Savoldo, verso il 1515, si stabilì probabilmente a Venezia, ma l’influsso imperante del maestro non lo contagiò fino agli Anni Venti, quando adottò infine soluzioni cromatiche e stesure degli impasti vicini a quelli del Vecellio (basti osservare la veduta di Riva degli Schiavoni sullo sfondo nel suo Riposo nella fuga in Egitto). Nonostante ciò, l’impatto del polittico fu sconvolgente, non solo per l’uso del colore ma anche per “la visione potente ed energica dell’anatomia umana” (Frangi) che ben si percepisce grazie a una suggestiva installazione multimediale tesa a preparare, o a completare, la visione dell’opera originale nel suo contesto. A seguire stupiscono le risposte immediate dei pittori bresciani in cui sono marcati i rimandi al capolavoro.
La mostra indaga inoltre l’adozione di schemi veneziani nei dipinti destinati alla devozione privata; sottolinea l’assoluta rarità a Brescia dei soggetti profani; tocca il tema dei ritratti, dove spicca il Tommaso Mosti di Tiziano; non dimentica d’altra parte di evidenziare il naturalismo e il realismo che testimoniano l’autonomia dei pittori bresciani, attratti anche verso il nord.
LE TELE PER LA SALA DELLA LOGGIA
All’ormai vecchio Tiziano Brescia decise di affidare una seconda committenza pubblica: tre tele con le allegorie della città realizzate negli Anni Sessanta del XVI sec. per la Sala delle assemblee della Loggia e andate disgraziatamente divorate da un incendio nel 1575.
Le ricerche – l’esposizione si basa su un solido lavoro scientifico a cui si affianca una forte impronta del curatore – consentono di affermare che esse rappresentavano l’Apoteosi di Brescia, Cerere e Bacco e la Fucina di Vulcano: di quest’ultima ci offre un’idea un’incisione del 1572 attribuita a Cornelis Cort, mentre l’apoteosi è suggerita da un disegno a penna.
Infine, la conclusione del percorso celebra, coerentemente, il “rinnovarsi dell’apertura di credito riservata dalla committenza locale alla grande pittura veneta e veneziana. Quella, in particolare, delle officine laboriose di Paolo Veronese e dei Bassano, e che rappresentano un degno epilogo “dell’entusiasmante dialogo figurativo che Brescia e Venezia intrecciarono nel corso del Cinquecento”.
‒ Marta Santacatterina
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