Questione di dettagli. L’editoriale di Marcello Faletra
Una riflessione sulla pittura di Antonello da Messina, capace di evocare tratti comuni all’umanità intera.
La mostra su Antonello da Messina a Palermo è stata una lezione sulla difficoltà di trovare un’identità culturale in un artista (nonostante l’allestimento degno di vetrine da supermercato). Due importanti pitture, benché promesse dall’organizzazione, non sono mai arrivate. Sostituite da fotocopie da quattro soldi. La mostra, benché sia stata promossa dall’Assessorato regionale dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana (sic!), sconfessa i promotori. Antonello da Messina si forma a Napoli, poi a Roma, a Venezia e in altre città. Dove si colloca l’identità di Antonello? A Messina, a Napoli, a Venezia, nelle Fiandre? La sua pittura è un’esperienza di cultura artistica europea, che coniuga sud e nord. L’universalità della luce mediterranea si fonde con la particolarità della lucentezza fiamminga. Prima ancora di Lotto, il ritratto di Antonello è già un trattatello di psicologia portatile della società borghese del tempo. Una specie di minimalismo dello sguardo.
C’è una strana contemporaneità in Antonello. Fatte le debite distanze storiche, si tratta di capire in un suo ritratto quello che Beckett sosteneva: “Tutto quello che è, è qui”. Non c’è un’altra realtà oltre quello che è mostrato. È un pittore del minimo indispensabile. Una specie di materialismo dell’immagine, di provenienza fiamminga. Nulla da aggiungere al ritratto, se non qualche dettaglio, come una mano che accenna a una carezza, o che avanza verso di noi. Le mani di Antonello traducono l’audacia dei sensi. Sono baci. In alcune opere la sensualità mediterranea è incastonata come un gioiello nella materia lucente di una superficie.
“È un pittore del minimo indispensabile. Una specie di materialismo dell’immagine, di provenienza fiamminga”.
Nel ritratto del cosiddetto “ignoto marinaio”, Leonardo Sciascia osservava che quel volto poteva essere chiunque: un borghese, un truffatore, un viandante, un aristocratico, un popolano, o un marinaio. Ma ciò che contava per lui è che la posta in gioco è la questione della somiglianza: ciascuno di noi è un ignoto marinaio. Potenzialmente può somigliare a un truffatore come a un aristocratico. La fisionomia, per Sciascia, non è un indizio di classe sociale. A differenza dello storico dell’arte Federico Zeri, per il quale l’Ecce Homo conservato al Metropolitan di New York avrebbe uno sguardo tale che “assume, con questa straordinaria smorfia, addirittura un aspetto che oggi si definirebbe mafioso”. Zeri forse era in possesso di una ricetta fisiognomica tale da stabilire già da un ritratto l’immagine di un mafioso? Ciò che sappiamo e ciò che immaginiamo in questo caso si scambiano i ruoli. Non abbiamo immagini del mafioso Provenzano che faceva smorfie. Mentre troviamo la “smorfia”, cioè un’oltranza dell’espressione, spesso in facoltosi banchieri, o personaggi dello spettacolo e della politica. Smorfie sarcastiche. Smorfie di arroganza. Smorfie di furbizia… L’Ecce Homo – ciascuno di noi – di Antonello da Messina non coincide con quello di Federico Zeri.
‒ Marcello Faletra
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #48
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