Verrocchio, il Maestro di Leonardo. Note critiche alla mostra fiorentina
Massimo Giontella illustra le ragioni storiche stilistiche per attribuire a Leonardo da Vinci il disegno della Madonna di Piazza della Cattedrale di Pistoia attribuito al Verrocchio. Traendo spunto dalla mostra fiorentina di Palazzo Strozzi.
Il 9 marzo scorso si è aperta a Firenze, a Palazzo Strozzi, per le cure di Francesco Caglioti e Andrea De Marchi, una grandiosa mostra dedicata ad Andrea del Verrocchio. Senza mezzi termini, l’artista fiorentino viene definito “Il Maestro di Leonardo”; l’intitolazione lascerebbe intendere che il Vinci si abbeverò soltanto a quella fonte per costruire l’immensità della sua arte. Una tale impostazione della mostra cade rovinosamente al cospetto della Ginevra Benci dipinta da Leonardo intorno al 1475. La critica d’arte, sapientemente, vede van Eyck nel volto di Ginevra: fu forse Verrocchio a insegnare a Leonardo l’arte del grande artista fiammingo? Improponibile!
ANTONIO DEL POLLAIOLO
Il Maestro di pittura di Leonardo è stato Antonio del Pollaiolo, l’interprete italiano di van Eyck. Le note biografiche di Antonello da Messina dicono che si recò lontano per apprendere l’arte fiamminga. Lontano erano evidentemente le Marche, perché nell’agosto del 1475 Antonello è documentato a dipingere la pala di San Cassiano, derivazione diretta della Pala Montefeltro che, come vedremo, non è da assegnare a Piero della Francesca.
Nella mostra di Palazzo Strozzi sono esposti molti dipinti con attribuzioni a Verrocchio, peraltro contestabili, in cui la personalità di pittore dell’artista viene fin troppo esaltata, archiviando frettolosamente l’asserzione di Vasari secondo la quale Verrocchio, quando vide l’angelo del Battesimo di Cristo, portato a termine dal Vinci sul suo dipinto, decise di abbandonare la pittura. Come ho scritto più volte, quando la Repubblica fiorentina, agli inizi degli Anni Settanta del Quattrocento, decise di adornare la Porta della Catena, nel Palazzo della Signoria, con opere dei due più famosi artisti fiorentini, fece realizzare in affresco ad Antonio del Pollaiolo il San Giovanni Battista, Patrono di Firenze, e per contro fece porre nel pianerottolo il David bronzeo del Verrocchio.
Su questa falsariga è da scartare la proposta, avanzata nella mostra, che il disegno preparatorio per il dipinto per l’altare dell’Oratorio della Madonna di Piazza, nella Cattedrale di Pistoia, sia opera del Verrocchio; il dipinto fu effettivamente commissionato al famigerato scultore fiorentino ma la realizzazione, che prese più di dieci anni, fu devoluta ai frequentatori della sua bottega. Ne è prova quanto scritto nel documento del 1485 stilato dalle Istituzioni di Pistoia, nella fase ultimativa dell’opera, in cui si dava agli Operai di San Jacopo il seguente incarico: “Abbino autorità di vedere se dicta tavola è secondo la scritta e disegno in quella dato” (A. Chiappelli, Andrea del Verrocchio in Pistoia, 1899). Le Istituzioni volevano sapere se l’opera corrispondeva al contratto stipulato con il Verrocchio più di dieci anni prima e allo schizzo correlato. La richiesta esclude che il disegno preparatorio (il disegno su cui viene stesa direttamente la pittura) sia stato fatto dal Verrocchio perché altrimenti non ci sarebbe stato alcun bisogno di controlli.
Chi sia stato, tra gli adepti della bottega del Verrocchio, l’effettivo realizzatore del disegno è facile intuire, anche perché fin dalla metà del Seicento Michelangelo Salvi ha avanzato senza riserve (Delle historie di Pistoia e fazioni d’Italia, Bologna, Forni, 1978 (Historiae urbium et regionum Italiae rariores; N.S. 55), tomo II, p. 422) il nome di Leonardo, ripreso poi con forza tra il XIX e il XX secolo. Del resto il Vinci sembrerebbe lui stesso reclamare la paternità del disegno quando scrisse “bre [settembre] 1478 incominciai le 2 Vgine [Vergine] Maria”. Se uno dei due dipinti viene unanimemente ritenuto la Madonna del Garofano, l’altro potrebbe essere proprio la Madonna di Piazza. Cominciare un dipinto voleva dire all’epoca realizzarne il disegno come i dogmatici insegnamenti imponevano; è da accettare senza riserve che l’esecutore del dipinto sia stato Lorenzo di Credi, come riporta Vasari; l’intervento di Leonardo, nell’impostazione dell’opera, è stato inopportunamente accantonato, essendo evidente la differenza qualitativa tra il disegno preparatorio e la stesura pittorica. Nello studio della tavola si riscontrano, in effetti, riferimenti diretti a Leonardo. Una piccola tela, esposta alla mostra, raffigura il volto di San Donato di Arezzo così come venne poi realizzato nella Pala di Pistoia; i curatori attribuiscono la tela a Leonardo con argomentazioni condivisibili; del resto la qualità del piccolo dipinto è molto superiore rispetto al particolare corrispondente della grande tavola, il cui disegno preparatorio si avvicina, al contrario, in modo evidente alla piccola tela; Leonardo aveva verosimilmente realizzato un modellino che facesse da guida per Lorenzo di Credi. Parimenti leonardesca è l’impostazione della mano del San Giovanni Battista, con l’indice che addita il Bambino: una soluzione in familiarità con il San Giovanni Battista di Leonardo del Louvre, mentre la composizione di foglie e frutta al di sopra del trono nella tavola di Pistoia mostra legami con il fare leonardesco (Sala dell’Asse del Castello Sforzesco).
LA MADONNA DI PIAZZA
Ma qual è il recondito significato della Madonna di Piazza? A mio avviso di tratta di una Pala riparatoria e un ricordo storico aiuta a comprenderne il significato. Nella Cattedrale di Pistoia è presente il monumento funebre del Cardinale Forteguerri, opera commissionata al Verrocchio e in gran parte da lui realizzata. La storia della commissione è contorta e a mio avviso ha legami con la Madonna di Piazza: vediamo in che modo. Dopo la morte del porporato la comunità di Pistoia decise di onorare il cardinale con una prestigiosa sepoltura monumentale; fu bandito un concorso per l’assegnazione dell’opera cui partecipò anche il Verrocchio, che ovviamente risultò vincitore. Quando nel ‘76 si passò alla valutazione dei costi, di fronte alla richiesta dello scultore fiorentino di 350 ducati, gli Operai di San Jacopo si rivolsero a Piero del Pollaiolo, in quel periodo dimorante a Pistoia perché incaricato della realizzazione del tabernacolo del Corpus Domini del Duomo, e gli chiesero di elaborare un modello alternativo per il monumento. Una lettera scritta in proposito a Marsilio Ficino da Antonio Ivani, Cancelliere del Comune di Pistoia dal 1477 al 1482, forse in risposta a una richiesta in merito del filosofo, esaltava l’attività di Piero del Pollaiolo come scultore di pietra (M. Giontella, Ragioni storiche e ragioni stilistiche per l’attribuzione ad Antonio del Pollaiolo dell’Annunciazione degli Uffizi attribuita a Leonardo, in “Antonio del Pollaiolo il maestro dei maestri”, Polistampa, Firenze 2016, pp.75-88).
Il modello presentato dal più giovane dei Benci fu molto apprezzato dalla Comunità di Pistoia, ma ciò nonostante i Commissari riaffidarono la commessa al Verrocchio. Gli Operai scrissero allora una lettera a Lorenzo de’ Medici, facendo presente che giudicavano il modello del Pollaiolo superiore a quello del Verrocchio e dello stesso parere era il fratello Piero del Cardinale e tutti i suoi familiari nonché tutta la Comunità di Pistoia; Lorenzo affidò ugualmente la commissione al Verrocchio (la scelta di Lorenzo, uomo molto astuto, in favore del Verrocchio per la commissione del monumento funebre Forteguerri, potrebbe essere stata dettata dalla consapevolezza che Antonio del Pollaiolo lavorava a pieno titolo per l’amico-nemico Federico di Montefeltro; siamo alle porte della congiura dei Pazzi cui il Duca di Urbino prese parte attiva(. Qualunque sia stata la motivazione della scelta del Medici, il fatto che gli Operai di San Jacopo avessero interpellato Piero del Pollaiolo, il “pittore” dei due fratelli, prova, vanificando illazioni della critica d’arte in senso contrario, che i Pollaiolo erano all’epoca praticanti la scultura lapidea con una rinomanza tale da poter competere con il grande scultore di pietra del tempo.
Il dato ci consente di poter fare ovvie considerazioni: se la Comunità di Pistoia richiedeva a Piero del Pollaiolo un modello da contrapporre a quello di Andrea del Verrocchio è perché era ben cosciente dell’alto livello dell’attività di scultori di pietra dei fratelli Pollaiolo e al tempo stesso riteneva automatico, se Lorenzo avesse rispettato le loro volontà, che, nella realizzazione del monumento sarebbe intervenuto il fratello maggiore, lo “scultore” dei due; lo attesta il fatto che nel 1485 Piero del Pollaiolo reclamava dalla Comunità di Pistoia il pagamento per i dipinti fatti in Duomo ma la successiva ricevuta di sessanta fiorini-oro fu firmata congiuntamente da Piero e Antonio del Pollaiolo. I due fratelli, che imperversavano a Pistoia, furono sconfitti nella competizione con il Verrocchio per il sepolcro del Cardinale Forteguerri, a dispetto, come si è detto, dei desiderata della Comunità; Leonardo, nella realizzazione della Madonna di Piazza, intese riparare all’umiliazione inferta al suo maestro di pittura ponendo nel disegno preparatorio per la tavola elementi che ricordassero molto da vicino la Pala Montefeltro, l’opera-guida del Rinascimento nel secondo Quattrocento.
Ho già ripetutamente sostenuto che l’opera urbinate non è di Piero della Francesca ma di Antonio del Pollaiolo; l’attribuzione a Piero della Francesca è unicamente frutto di abbagli ottocenteschi di Cavalcaselle e Schmarsow, incamerati dalla critica con sussulti di entusiasmo e ripensamenti fino alla monografia del 1927 di Roberto Longhi (a conferma che il momento giovanile è il periodo delle grandi intuizioni dell’uomo, si ricorda che nel periodico l’Arte del 1914 il giovane Longhi scriveva che non esistono Madonne con Bambino di Piero della Francesca). Piero della Francesca non ha avuto alcun approfondito contatto con Leon Battista Alberti e con van Eyck, per cui non può essere uscita dalla sua mano l’architettura dipinta della Pala Montefeltro e tanto meno il richiamo diretto, ivi contenuto, alle tavole di van Eyck che presupponeva un’indagine in loco e non la ricezione per interposta persona. La Pala Montefeltro è stata realizzata nel 1474 da Antonio del Pollaiolo quando ormai da tre anni Federico di Montefeltro aveva allontanato da Corte Luciano Laurana e Piero della Francesca, ponendo Antonio del Pollaiolo come Capo-fabbrica e maestro di scultura e pittura rispettivamente per i due esecutori Ambrogio Barocci e Fra Carnevale; il Pollaiolo riservava a se stesso opere di primaria importanza come la Battista Sforza del Bargello (la cui attuale attribuzione a Francesco Laurana è da modificare quanto prima) e per l’appunto la Pala Montefeltro. Non mi dilungo oltre su un argomento da me trattato a più riprese e mi limito a citare il contributo esaustivo in proposito (M. Giontella, La Pala Montefeltro e il suo Autore, in “Atti e Memorie dell’Accademia di Scienze e Lettere La Colombaria”, Olschki, Firenze 2009, n. 60, pp. 31-77). I legami tra la Madonna di Piazza e la Pala Montefeltro sono evidenti: l’impostazione generale, la trabeazione colorata, il tappeto ai piedi della Vergine, tutto concorda nel ritenere che la Pala Montefeltro celebrata e imitata da grandi artisti, vedi ad esempio la pala del Ghirlandaio, ma, primo fra tutti, da Leonardo. La realizzazione della Madonna di Piazza prese, come si è detto, un lungo arco di tempo, più di dieci anni: nel 1481 l’opera era in avanzato stato di realizzazione, ma un evento di straordinaria importanza spingeva Leonardo a evocare nuovamente il suo maestro pittore per la eccezionalità dell’ultima sua opera: l’Annunciazione degli Uffizi, oggi attribuita dal museo unicamente alla mano di Leonardo, ma sulla quale il Vinci è intervenuto unicamente in piccola parte.
IL LEGAME CON L’ANNUNCIAZIONE
Ho già scritto per Artribune sull’Annunciazione, ma in questo frangente debbo riprendere l’argomento e torniamo pertanto a riferimenti storici chiarificatori. Nel mese di agosto del 1480 le armate turchesche del Sultano Maometto II invasero le Puglie nella zona di Otranto ed espugnarono la città, dopo un duro assedio, facendo strage di civili. L’invasione turca terrorizzò il Papato, il Re di Napoli e tutti i potenti d’Italia, Venezia esclusa, tanto che a fatica fu organizzato un sodalizio per cacciare l’invasore. Sulle prime si pensò a Federico di Montefeltro come comandante delle truppe che avrebbero dovuto liberare Otranto, ma per l’intervento di Sisto IV il Duca dovette rinunciare all’impresa e tornare a Urbino quando era già partito per Otranto e si trovava a Recanati. È in questo contesto che è stata concepita l’Annunciazione degli Uffizi; un’opera celebrativa della futura impresa, che avrebbe dovuto adornare la camera da letto del Duca di Urbino, nella sua villa di Rusciano, a Firenze. Il dipinto mostra, alla confluenza delle linee prospettiche, una cittadina marinara, di aspetto turchesco, che corrisponde in modo incontestabile a Otranto invasa dai Turchi e modificata immediatamente nell’aspetto con torri dalle sommità orientali; le mura con i bastioni, la cattedrale cristiana posta sulla collina, un lago che sfocia in mare sulla sinistra (i Laghi Alimini di Otranto), i bassi fondali marini depongono per il riconoscimento senza riserve della cittadina pugliese espugnata dagli Ottomani. Un documento chiarisce che Federico di Montefeltro aveva in mano un disegno di Otranto fatto fare da Papa Sisto IV in funzione di un attacco militare; soltanto da quel disegno si poteva riprodurre così fedelmente la città di Otranto nell’Annunciazione degli Uffizi, non certo da una esplosione di fantasia e preveggenza di un giovane Leonardo. La presenza di Otranto nell’Annunciazione certifica che il dipinto ha datazione al primo trimestre 1481, il periodo in cui si preparava la liberazione della città avvenuta qualche mese dopo. Cade la ferma determinazione con cui si sostiene la totale paternità sul dipinto del giovane Leonardo, associata a una indomita pervicacia nel riscontrare errori di tutti i tipi in un’opera che riconosce unicamente le manchevolezze di chi non l’ha correttamente interpretata finora. Quanto allo stile, se è indubbio l’intervento di Leonardo (volto dell’Arcangelo Gabriele), è altrettanto indubbio che elementi fondamentali del dipinto, primo fra tutti il miniaturismo, disconoscono la mano del Vinci. Leonardo è unanimemente riconosciuto come il grande naturalista del Quattrocento; orbene nel prato dell’Annunciazione ci sono duecento e forse più fiori di fattura perfetta ma non ve ne è uno che abbia rispondenza in natura.
L’ala di Gabriele non è come appare ora perché allungata con una ridipintura di fine Seicento; depurata della parte spuria, l’ala originaria risulta quella di un putto e non di un Arcangelo e per di più il dipinto è stato volutamente realizzato con una sola ala alle spalle di Gabriele; l’abbozzo di seconda ala è un mirabile artefatto di inizio Cinquecento come si evince dalla presenza di un paesaggio originariamente dipinto al di sotto. Dov’è il naturalismo leonardiano? L’opera è la quintessenza del messaggio simbolico, trasmesso cripticamente agli adepti anche con espedienti scambiati per errori. Continuando a presentare l’Annunciazione come un’opera giovanile di Leonardo, ricolma di errori, si arreca grave danno sia al dipinto sia al Vinci. L’Annunciazione è il dipinto della piena maturità di Antonio del Pollaiolo, il dipinto dei dipinti della storia dell’umanità, cui Leonardo ha avuto l’onore di partecipare in piccola parte.
CON LORENZO DI CREDI
Ma perché questa digressione scrivendo della Madonna di Piazza? Perché Leonardo, dopo aver ricordato in disegno la Pala Montefeltro nella tavola di Pistoia, volle fare un aggiornamento di ossequi al suo maestro disegnando per Lorenzo di Credi una piccola Annunciazione, oggi al Louvre, annessa alla predella della tavola di Piazza, per ricordare da vicino la sorella maggiore degli Uffizi: i legami tra i due dipinti sono in realtà molto significativi, ma nessuno dei due è da ascriversi a Leonardo.
Il piccolo dipinto di Parigi è anch’esso opera di Lorenzo di Credi, ma l’intervento di Leonardo per il disegno è evocato con forza dalla presenza, nel Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, di un volto di donna da cui è evidentemente derivato, anche se con caduta di qualità, il viso di Maria della tavoletta del Louvre. La riparazione nei riguardi di Antonio del Pollaiolo era espletata a pieno, per la gioia della fazione a lui favorevole in quel di Pistoia, ma non per i partigiani del Verrocchio come si evincerebbe dai toni velatamente polemici dei documenti del 1485, nei riguardi degli esecutori.
‒ Massimo Giontella
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