Raffaellino del Colle e il suo maestro. In mostra a Urbino
Ancora nell’anno di Leonardo, una mostra preannuncia le celebrazioni per Raffaello e ribadisce la grandezza, senza soluzione di continuità, della storia dell’arte italiana. Il confronto fra il divino urbinate ‒ presente con due opere attribuite, in prestito dall’Accademia di San Luca di Roma ‒ e l’allievo Raffaellino del Colle, svela un altro tassello del grandioso mosaico che fu il Rinascimento. Piccola ma raffinata mostra di studio su undici capolavori. Al Palazzo Ducale di Urbino, Sale del Castellare, fino al 13 ottobre 2019.
La mostra si apre nel segno di Raffaello, con un Putto dipinto ad affresco, e la splendida Madonna col Bambino, che vede la critica d’accordo sull’attribuzione, perché all’eleganza dell’esecuzione si accompagna un ragionamento di squisita matrice neoplatonica, nerbo fondante del pensiero rinascimentale. In quell’umanità serena e profonda risplende l’ideale della bellezza della polis che trabocca di virtù: pudicizia, onestà, coraggio, fermezza.
Il cartone preparatorio del Putto è stato realizzato con la difficile tecnica “dello spolvero”, e richiama l’affresco con il Profeta Isaia, dipinto da Raffaello nel 1511-12 nella chiesa di Sant’Agostino a Roma. La Vergine trova invece sostegno nell’attribuzione per la vicinanza di stile alla celebre Madonna Solly, ora a Berlino. Alla maniera michelangiolesca, magnifica e scultorea, l’urbinate risponde con la delicatezza delle forme, che è come rispondere con i versi di Lucrezio agli scritti di Cicerone. Il significato delle opere di Raffaello va oltre il tema religioso sovente affrontato, perché l’umanità da lui ritratta è figlia dell’armonia platonica, eticamente pura e dedita alla virtù. Un contrasto assai profondo con la realtà del Rinascimento, dove papi e cardinali, pur splendidi mecenati e intenditori d’arte, affogavano letteralmente nei vizi e nei piaceri. Contraddizioni di un’epoca splendida che ancora oggi è simbolo e paradossale dannazione del popolo italiano.
Entrambe le opere esposte hanno esercitato una notevole influenza su Raffaellino, come si può evincere dal confronto con i suoi lavori selezionati per la mostra e allestiti su un’elegante pannellatura rossa, che un po’ omaggia il panno cardinalizio di cui sopra, e un po’ la sensualità rinascimentale.
UNA MANIERA NON DI MANIERA
Raffaello di Francesco di Michelangelo di Colle di Borgo Sansepolcro, meglio noto come Raffaellino Del Colle (Sansepolcro, 1495-1566), appartiene suo malgrado a quel vasto gruppo di artisti rinascimentali lasciati in ombra dalla “magnifica triade” Leonardo-Michelangelo-Raffaello, e la critica solo in epoca recente ha cominciato a occuparsi di lui: la prima retrospettiva risale al 1976, e lo stesso Vasari, nelle Vite, non gli dedica una biografia a sé stante, ma lo cita più volte in quelle altrui, sempre tuttavia in maniera lusinghiera.
Non molti episodi e dettagli della sua esistenza ci sono noti. Allievo, nella natia Valtiberina, di Giovanni di Pietro detto lo Spagna, già influenzato dai cromatismi raffaelleschi, fu lui a educarlo all’ammirazione per l’urbinate, e probabilmente a introdurlo al cantiere vaticano dove appunto Raffaello lavorava. Fra il 1517 e il 1520 Raffaello e Raffaellino collaborarono l’uno a fianco dell’altro, e il giovane toscano ebbe modo di affinare stile e tecnica al punto da guadagnare la stima del maestro e del suo primo allievo, Giulio Romano, il quale nel 1524 lo nominò erede della bottega, nonché di ogni singola opera compiuta e incompiuta. L’influenza di Raffaello si coglie a prima vista, contornata non da caratteri imitativi, bensì intrisa d’ammirazione per il maestro e di volontà di stargli a pari, in una sorta di benevola competizione che rivela l’amore per l’arte. Il Putto ispira l’allievo che pone analoghe figure sullo sfondo, ad esempio, della leggiadra Santa Caterina d’Alessandria, riproponendo la ghirlanda che copre l’avambraccio e la lieve torsione del corpo. E l’attenzione ai panneggi dei mantelli di seta, con i preziosi giochi di sboffi, è anch’essa mutuata dal maestro.
Tuttavia, nonostante l’influenza del “divino urbinate”, Raffaellino sviluppò una sua personale maniera, a tratti anche precorritrice dei tempi. L’impressionante volto grottesco di Sant’Elisabetta nella Sacra Famiglia anticipa quella che sarà una costante della scuola fiamminga del tardo Cinquecento, che proprio in Italia calò per apprendere i segreti della maniera. E ancora, è tratto caratterizzante lo stile di Raffaellino il tenero rossore che adorna i volti di sante e Vergini, aggiungendo un tocco di pudica femminilità alle loro figure.
UN DIALOGO IMMORTALE
Per la prima volta, in un ideale itinerario fra Toscana, Umbria e Marche, si potranno ammirare riunite alcune delle opere più significative di Raffaellino, provenienti da chiese e musei. Purtroppo, a causa di lungaggini burocratiche da parte della Soprintendenza, alcune, nel momento in cui si scrive, non sono ancora giunte in mostra, ma quanto esposto dà comunque la misura del dialogo fra i due artisti. Come un’eco nitida e squillante, Raffaello è presente nell’opera di Raffaellino, che fu il miglior interprete di quella “maniera divina” che fu la risposta alla muscolarità di Michelangelo, il sussurrato omega di un’alfa ben più tonitruante.
I frequenti riferimenti all’opera del maestro rivelano l’ammirazione per il suo talento, ma anche una certa affettuosa volontà di contribuire a eternarne la fama. E invero, l’opera di Raffaello vive anche in quella del suo allievo, e insieme vive quello splendido Rinascimento, ideale e assoluto, di cui ha saputo cogliere, e Raffaellino con lui, la poetica, divina levità.
‒ Niccolò Lucarelli
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