Pietro Aretino e la luce controversa del Rinascimento. A Firenze
La mostra alle Gallerie degli Uffizi rende omaggio all’acuta e irriverente figura di Pietro Aretino attraverso le sue opere e quelle dei contemporanei che contribuirono a tracciare il volto di un’epoca. Dipinti, stampe, sculture, antichi volumi, per una rassegna che è il ritratto di un’epoca.
“Qui giace l’Aretin poeta tosco // che disse mal di ognun, fuorché di Dio // scusandosi con dir “non lo conosco”. Con questo pungente epitaffio il poeta fiorentino Giovan Battista Fagiuoli rendeva omaggio a suo modo a Pietro Aretino (Arezzo, 1492 – Venezia, 1556), intellettuale salottiero, poeta licenzioso, critico d’arte e umorista, specchio della controversa Italia del Cinquecento.
I versi del Fagiuoli, per quanto taglienti come solo un fiorentino avrebbe saputo scriverli, in fondo rivelano, con un pizzico di toscano compiacimento, una natura libertina, un ingegno spregiudicato, una certa sfiducia negli uomini; qualità unite a un innato gusto per il bello e alla propensione per la vita agiata.
Tiziano, nel ritratto che apre la mostra, lo consegna ai posteri con una severa veste marrone e una pelliccia sulle spalle, la barba folta e lo sguardo intenso. Di umili natali, forse figlio di una prostituta, ancora adolescente vagabondò fra Arezzo, Perugia, Bologna, e infine giunse a Roma, dove s’impiegò come servitore presso la potente famiglia Chigi. E alla loro mensa, perché di questo si trattava, scrisse le prime poesie licenziose, che gli spalancarono le porte della buona società romana e poi della corte papale. Frequentò però anche Mantova, Pavia, saltuariamente Firenze: e la mostra è anche un viaggio ideale in quelle corti rinascimentali dove Aretino visse e dette saggio del suo genio e della sua irrequietezza, si fece ammirare (e temere) come conversatore e polemista, deliziò il pubblico che sapeva leggere con i suoi scritti francamente pornografici e sardonici, ma seppe anche mostrare il suo lato più raffinato, in quelle commedie di costume, fra cui L’ipocrita, nelle quali rivela la pungente penna toscana (che arriverà fino a Collodi, Montanelli e Malaparte) capace di “fustigare” le mancanze morali di un popolo mai coagulatosi. Virtù e vizi in lui si divisero equamente, ma ebbe l’onestà di riconoscerlo.
LE SPLENDIDE CORTI
La corte fu la cornice della vita e del pensiero dell’Aretino, e nell’Italia rinascimentale rappresentò il soggetto politico che meglio riuscì ad avvicinarsi all’idea di Stato. L’Italia non lo era ancora, e, pur in quella frammentazione, nacque una sorta di “repubblica sovranazionale delle arti e delle scienze”, in cui artisti, scrittori, filosofi, pensatori, uomini di Stato discutevano e collaboravano alla rinascita civile dopo i Secoli Bui. Bronzino, nel Ritratto di Cosimo I, immortala sì un uomo, ma anche il simbolo del condottiero e dello statista, che all’epoca aveva ancora Machiavelli come principale ispiratore. E qui, in questo spirito pronto al tradimento per la ragion di Stato, in quello spirito individualista, risiede forse il limite del Rinascimento e dell’Italia dell’epoca (e forse non soltanto): le satire amare dell’Aretino, la Pasquinate, i licenziosi sonetti, raccontano una società divisa, viziosa, ipocrita, dove prevalgono l’adulazione, l’arte di arrangiarsi, l’iniziativa personale. Concetti opposti all’armonia platonica della civile polis, cui richiamano le scene mitologiche di Sebastiano del Piombo, le delicatezze muliebri di Raffaello, Giulio Romano, Lotto, le architetture di Palladio, Dosio, Sansovino, la moderna carnalità di Tiziano. È questa la cornice della vita dell’Aretino, che però seppe vedere le ombre, i limiti di queste soglie malapartianamente “splendide e tristi” del Rinascimento. Tutta la sua opera poetica e drammaturgica sembra anticipare il mondo di Caravaggio: prostitute, ruffiani, lenoni, vagabondi, ladri, truffatori: una caleidoscopica commedia umana in cui l’ipocrisia del potere fungeva da ago della bilancia. E forse fu per vendicare gli ultimi, cui si sentiva invece vicino, che chiese apertamente lauti “riscatti” a cardinali, artisti, nobili, per evitare di essere pubblicamente descritti per quello che erano davvero. Millantate o meno che fossero, le minacce di calunnie gli procurarono molto denaro.
Ma non stupisce che l’Aretino abbia scelto la Repubblica di Venezia come meta ultima del suo libertino pellegrinare; pur oligarchica, la Serenissima era lo Stato civilmente più avanzato in Italia, laico e libertario, uno Stato dove la stampa era una fra le più libere in Europa. E non casualmente qui furono date alle stampe molte delle sue licenziose opere, che andavano a ruba anche alla corte pontificia.
BELLEZZA E DECADENZA
Una mostra d’arte, ma anche di storia, filosofia, costume, che fra preziosi volumi a stampa del Cinquecento, dipinti, sculture, medaglie, suppellettili rinascimentali, ricostruisce il personaggio attraverso la sua opera letteraria e gli ambienti culturali in cui si è formato o con cui è venuto a contatto: Arezzo, Firenze, Perugia, Mantova, Roma, Venezia, e insieme documenta l’altissimo livello creativo raggiunto dall’Italia in quel secolo in cui strabiliò l’Europa. Ma già covava in sé i germi della sua decadenza, e fallito il sogno dell’unità politica vagheggiato da Cosimo, il fragile equilibrio si ruppe e tutti quei talenti, idee, entusiasmi, energie si dispersero nella lotta fratricida. Uno scenario che la mostra, artistica ma anche, se vogliamo, sociologica, offre al visitatore più attento. E insieme rivela l’attualità di problematiche dalle origini lontane.
‒ Niccolò Lucarelli
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