Caravaggio. Storia e significato della Vocazione di San Matteo
Commissionata a Caravaggio per affermare la conversione di Enrico IV alle soglie dell’anno giubilare del 1600, la “Vocazione di San Matteo” destinata alla chiesa di San Luigi dei francesi riassume la poetica giovanile di Caravaggio e getta le basi della sua fulminea carriera.
Le indagini diagnostiche condotte sulla Vocazione di San Matteo hanno dimostrato che Caravaggio aggiunse la figura di Pietro a opera conclusa. Per ricostruire le ragioni che condussero a questa scelta dobbiamo ricordare che la tela era pensata per la chiesa di San Luigi dei francesi, punto di riferimento per una comunità che, alla vigilia dell’anno giubilare del 1600, attraversava un momento estremamente delicato. Il panorama politico era scosso dalla promulgazione dell’editto di Nantes (1598), con il quale Enrico IV concedeva sostanziale libertà di culto agli ugonotti. L’uomo che s’era convertito al cattolicesimo pronunciando la controversa frase Parigi val bene una messa, sembrava aver gettato la maschera.
Interessati a fomentare la guerra civile in Francia, spagnoli e imperiali facevano pressione su Clemente VIII affinché scomunicasse di nuovo Enrico di Navarra, come eretico mascherato e recidivo. Poco tempo restava al partito francese per mettere in immagine una contromossa che testimoniasse al mondo, entro l’anno giubilare, della legittimità e dell’autenticità della conversione del loro sovrano. Il completamento di una cappella in San Luigi, i cui lavori erano stati a lungo lasciati in sospeso, fornì l’occasione per elaborare un manifesto iconico. Inaspettatamente il lavoro fu affidato a un pittore che era quasi agli esordi, ma in suo favore s’era speso Francesco Maria del Monte, un cardinale amico. Nella scelta un qualche ruolo dovette giocarlo anche il fatto che Caravaggio abitava accanto alla chiesa, in quanto familiare del cardinale risiedeva nell’adiacente palazzo Madama, pertanto poteva essere considerato quasi di casa. Inoltre aveva il pregio di essere veloce e il suo stile avrebbe potuto parlare alle masse.
DAL CALVINISMO AL VANGELO
La cappella era dedicata alla memoria di Mathieu Cointrel, italianizzato in Contarelli. Il nome Matteo si prestava a costruire un’analogia tra l’evangelista omonimo e il re di Francia. L’idea era di affrontare con forza il nucleo del problema, sarebbe stato inutile negare i trascorsi del re, quindi si decise di puntare tutto sul potere salvifico della grazia che già aveva sconvolto l’esistenza di San Matteo. Come l’evangelista, anche Enrico era stato illuminato da un’improvvisa conversione, l’analogia era stringente perché non si limitava a rilevare una comune quanto generica condizione di peccato, l’associazione traeva la sua efficacia da una specificità, in effetti, tra le righe, a San Luigi si parlava di usura. Da una parte c’era Matteo, un esattore delle tasse che lucrava sul denaro del popolo, dall’altra il calvinista Enrico, seguace di colui che per primo aveva affermato la liceità del profitto ricavato dal prestito. Una volta stabilito il binomio Matteo-Enrico, le parole d’ordine della propaganda anticalvinista si prestavano a essere impugnate e mutate di segno. Per completare l’operazione occorreva trovare un passo del Vangelo adatto per mettere in scena, in modo spettacolare, l’uscita dalle tenebre. Si fece ricorso a Giovanni 1, 9-12:
“Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo.
Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe.
Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto.
A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio”.
CARAVAGGIO E LA LUCE
Avendo in mente questi versetti, Caravaggio inventa quella luce che d’ora in avanti l’avrebbe contraddistinto e attorno a essa impagina la Vocazione. Cristo, luce vera, fa irruzione in un locale sordido. Una finestra buia e impolverata s’accende di una luce innaturale e si trasforma in una croce, collocata esattamente in asse con la mano di Cristo. Il gesto d’invito trascorre sopra due ragazzi, armati di piume e spade, per raggiungere un Matteo esitante, chiudono il gruppo due personaggi soggiogati dall’avarizia. È tutto un gioco di mani, mani che contano soldi, che vanno alla spada, che indicano e l’indice di Matteo va in ombra per segnalare una svolta incipiente.
Come da dettato evangelico, e contro la teoria calvinista della predestinazione, la luce illumina ogni uomo, ma la possibilità della salvezza deve incontrare la libera scelta dei singoli. Solo Matteo, eletto per l’imperscrutabile disegno provvidenziale, riconosce il Redentore.
Il quadro poteva dirsi concluso, ma i committenti dovettero ritenere opportuno rimarcare la centralità del pontefice, ancora aleggiava nelle cancellerie vaticane il sarcastico ‘Signor Sisto, sedicente papa’, col quale Enrico s’era rivolto a Sisto V, che l’aveva scomunicato. Fu a questo punto che venne aggiunto Pietro, assunto a figura dei suoi successori. Il manifesto era pronto e pareva dichiarare che c’è speranza anche per l’ultimo dei peccatori, ma che la grazia dev’essere accompagnata dalla tutela del vicario di Cristo.
LA LEZIONE DI MICHELANGELO E MASACCIO
Dal punto di vista formale tuttavia l’inserimento di Pietro aveva depotenziato il rigore di una costruzione fondata sul linguaggio del Buonarroti. Nell’individuazione della fonte michelangiolesca si è spesso fatto riferimento alla Creazione d’Adamo, osservazione indiscutibile per la citazione della mano di Adamo e per il senso ultimo di chiamata alla vita, ma altrettanto stringente è il richiamo alla Resurrezione di Lazzaro, che Michelangelo aveva predisposto per Sebastiano del Piombo.
Obbligato a modificare l’impianto di partenza, Caravaggio risale alla sorgente dell’ispirazione michelangiolesca approdando al Miracolo del tributo di Masaccio. Il giovane Buonarroti aveva scoperto il gesto di Cristo studiando gli affreschi del Carmine, Caravaggio sembra tornare al medesimo testo per trovare la soluzione al suo nuovo problema. Nella cappella Contarelli Pietro riecheggia il cenno di Gesù, come nella masaccesca cappella Brancacci.
LA RESURREZIONE DI LAZZARO
Il Merisi aveva accontentato i committenti senza per questo aver dimenticato il suo progetto originario che realizzò nel 1609, quando poté dipingere la sua Resurrezione di Lazzaro.
In rapporto ai suoi modelli, il Cristo di Caravaggio alza leggermente il braccio, lo solleva quel tanto che basta a disegnare un imperativo angolo retto. Qui, per l’ultima volta, Merisi fa ricorso alla sua luce, che è assieme naturale e trascendente. Certo c’è stato un cambio di registro, la luce ha perso il suo carattere assertivo, s’è fatta sgranata e stagna sulla tela rivelandone la tessitura materica. Nel corso di dieci anni era successo tutto: il giovane pittore, cui il futuro s’apriva pieno di promesse, era diventato un assassino e un fuggitivo. Di questo clima risente l’orizzonte del quadro che sembra chiudersi, non c’è più spazio per aperture. Scompare così la finestra cruciforme della Vocazione, nella Resurrezione l’unica croce è il cadavere di Lazzaro. Secondo la tradizione, però, non è in quel corpo irrigidito dalla morte che s’è identificato l’autore, il pittore si sarebbe invece autoritratto proprio dietro la mano di Cristo. In quel punto, così importante, si riconosce un uomo in preghiera che non guarda verso Lazzaro o verso gli spettatori, forse neppure verso Gesù. Caravaggio sembra collocare la sua speranza di sopravvivenza altrove, all’interno del quadro. Auspicio di un’immortalità che abita l’opera messinese e che le dà forza, trasformandola in una profezia che si autoavvera.
– Antonio Rocca
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