Quella passione del Mantegna per la geologia
L’interesse di Andrea Mantegna per la geologia è individuabile nelle sue opere, grazie agli studi e agli approfondimenti del paleontologo Rodolfo Coccioni. Qui vi raccontiamo tutta la storia.
Vedere e analizzare le opere d’arte sotto aspetti diversi rappresenta un’attitudine della ricerca storico-artistica alla quale siamo avvezzi: l’arte viene analizzata in ogni suo aspetto, nella materia che la compone come nella forma narrativa o simbolica. In questo articolo, che intende divulgare la ricerca del professor Rodolfo Coccioni, paleontologo dell’Università di Urbino, in rapporto dialogico con la critica d’arte della Casa del Mantegna Elena Alfonsi, si indaga la materia lapidea esperita nelle opere di Andrea Mantegna, analizzata dal punto di vista dello studioso paleontologo, il quale ricerca le tracce delle conoscenze geologiche del pittore. In questo caso specifico si cerca di individuare il litotipo della pietra dell’unzione nel Cristo morto conservato alla Pinacoteca di Brera.
MANTEGNA E LA GEOLOGIA
In un’atmosfera di rinnovamento che tende a ridurre le distanze tra religiosità, arte e mondo naturale, nei quadri e negli affreschi delle ultime decadi del Quattrocento e delle prime del Cinquecento, gli elementi “geologici” che si inseriscono nel paesaggio sullo sfondo o nelle quinte di inquadramento delle scene o dei personaggi principali, o nel basamento delle composizioni, appaiono via via più frequentemente, con corpi e strutture sempre più evidenti e dettagliati. Le opere pittoriche del padovano Andrea Mantegna ne rappresentano un mirabile esempio.
Nel 1459, a Mantova, il pittore ebbe modo di incontrare Leon Battista Alberti, “l’uomo universale del primo Rinascimento”, chiamato da Ludovico III Gonzaga nell’ambito dei progetti di abbellimento cittadino per il Concilio convocato da papa Pio II per organizzare una spedizione contro gli Ottomani che avevano preso Costantinopoli nel 1453. Negli sfondi dei dipinti del Mantegna ricorrono frequentemente frammenti architettonici e scultorei di età classica. Non dovrebbe essere mancata quindi l’occasione di un confronto personale fra le loro osservazioni e intuizioni sugli elementi “geologici”, in particolare sulle “pietre” e sulle “scorze”, ovvero gli strati, per usare gli stessi termini utilizzati dall’Alberti nel suo De re aedificatoria, divulgato nel 1452.
L’ANALISI DEL CRISTO MORTO DI MANTEGNA
Nel Cristo morto, databile attorno al 1483, il corpo senza vita di Gesù, deposto dalla croce e coperto in parte da un sudario che mirabilmente mette in risalto le forme anatomiche, è disteso su una lastra di pietra, dello spessore valutabile in una decina di centimetri, identificabile con la cosiddetta “pietra dell’unzione”. La scena ritrae il momento della preparazione per la sua sepoltura, come testimoniato dalla presenza, sulla destra della lastra dell’unzione, del vaso per l’unguento di essenze odorose utilizzato per profumare i morti.
La testa del Cristo è appoggiata su un cuscino di colore rosa, con sfumature più chiare e più scure, dalla tonalità rosa corallo a quella rosa cipria. La pietra dell’unzione presenta, forse non sorprendentemente, le stesse tonalità rosate di fondo del cuscino. Un cuscino che Andrea Mantegna dipinse con una tecnica raffinatissima per rappresentare il marezzo, quell’insieme dei segni sinuosi a guisa di ombre di colore diverso dal fondo che spesso si trovano nel marmo. In questo modo però lo scopo del grande artista è di farci comprendere che la testa di Cristo non era posata su un cuscino di gelido marmo, come lo era il corpo, ma sopra un vero cuscino foderato di seta. Una accortezza che ci permette di ravvisare quali fossero le altissime capacità artistiche della sua pittura, che gli permetteva di rendere chiara la diversità dei materiali rappresentati, seppur, come in questo caso, dello stesso colore. Sulla pietra sono invece visibili, non uniformemente distribuite, delle pennellate che hanno l’aspetto di macchie e chiazze di colore più chiaro, dalla tonalità bianco avorio a quella grigio perla. Lungo lo spessore decimetrico della lastra tagliata al verso, cioè parallelamente ai piani di stratificazione, queste macchie e chiazze appaiono più distintamente e spiccano, sul fondo rosato legato alla presenza di pigmento ematitico nella matrice del sedimento, insieme a sparse forme subarrotondate di dimensioni centimetriche che rivelano una generale struttura nodulare. Si tratta molto probabilmente di quelle strutture biogeniche che geologi chiamano “bioturbazioni”.
La bioturbazione è la rielaborazione del sedimento da parte di animali bioturbatori, per lo più piccoli invertebrati, che vivono sul fondo o infossati nella sua parte più superficiale. Le loro attività faunistiche, che comprendono lo scavo, l’ingestione e la defecazione dei granuli di sedimento, contribuiscono alla miscelazione e all’alterazione della struttura originaria del sedimento stesso. Le bioturbazioni hanno caratteristiche e morfologie diverse a seconda del tipo di bioturbatore. Quelle fossili, come appunto quelle della lastra dell’unzione, vengono denominate ichnofossili, o più semplicemente tracce fossili, e hanno una significativa importanza stratigrafica e paleoambientale. Non deve sorprendere che strutture riferibili a ichnofossili siano state individuate perfino nelle rocce che appaiono in due dipinti di Leonardo da Vinci: nella prima versione della Vergine delle rocce conservata al Musée du Louvre di Parigi e databile tra il 1483 e il 1486 e nella Madonna dei fusi, databile attorno al 1501 e conservata in una collezione privata di New York; opera tra tutte per la quale è più attendibile un intervento diretto della mano di Leonardo.
LA PIETRA DELL’UNZIONE
Ma torniamo al Mantegna. Perché non tentare di identificare il litotipo della pietra dell’unzione del Cristo morto, considerando l’area di provenienza e di consuetudine di vita dell’artista? Compito certamente non facile, tenendo conto dell’immenso ventaglio geologico che, a est del lago di Garda e a nord del corso dell’Adige, si apre dalla dorsale di Monte Pastello verso le Prealpi venete, dai Monti Lessini fino all’Altopiano di Asiago, includendo la Valpolicella e la Valpantena e giù fino ai Colli Berici, consentendo l’estrazione di materiali lapidei ornamentali, lucidabili o levigabili, che, per la loro ampia varietà di tonalità cromatiche, grana, struttura, durezza e resistenza, sono da circa trenta secoli utilizzati per costruire edifici e abbellire monumenti in Italia e all’estero.
L’esame dettagliato dell’abbondante materiale fotografico reperibile online ha permesso comunque di restringere il campo a due materiali lapidei calcarei di origine sedimentaria, formatisi in un ambiente marino relativamente profondo. Di seguito se ne riportano le caratteristiche principali tratte dalla letteratura e dalle pagine web dei cavatori e marmisti:
PIETRA DELLA LESSINIA ROSA O PIETRA DI PRUN ROSA
Calcare regolarmente stratificato, a grana fine, spesso intensamente bioturbato, con una debole componente argillosa e un caratteristico aspetto nodulare. Localizzato in una sequenza di strati chiamata localmente lastame, una facies particolare della parte medio-bassa della Formazione della Scaglia Rossa Veneta depositatesi nel periodo Cretacico superiore. Il Lastame presenta una peculiare suddivisibilità in lastre che ne favorisce l’estrazione, ha uno spessore complessivo di 7-8 metri ed è costituito da 73 strati di spessore variabile tra 4 e 35 centimetri. Colore dal bianco-rosato al rosa di varie tonalità fino al rosso cupo. Ogni strato è contrassegnato da un nome specifico in lingua veneta antica che riflette l’uso, la pigmentazione o le caratteristiche tecniche. Oltre a comuni microfossili, in alcuni strati del Lastame possono essere presenti altri vari fossili marini e ciottoli arrotondati. La prima segnalazione di attività estrattiva della Pietra della Lessinia o Pietra di Prun in un documento storico risale al 1204, ma la sua estrazione è attestata fin dall’Età del Ferro, circa 3000 anni fa. Fino a oltre la metà del secolo scorso questa pietra veniva estratta in sotterraneo con la tecnica di risparmiare dei pilastri per garantire il sostegno del tetto delle gallerie. Tra le cave di pietra, “preare” nell’idioma locale, storicamente attive nella Lessinia occidentale, si ricordano quelle del Monte Solane, a nord di Sant’Ambrogio di Valpolicella, e quelle antiche di Montindon, poco a sud-ovest di Sant’Ambrogio, oltre a quelle più note di Prun, nel comune di Negrar. Attualmente l’estrazione avviene a cielo aperto e le principali cave si aprono soprattutto sui versanti del Monte Loffa, tra Sant’Anna d’Alfaedo e Breonio, in Valpolicella nella zona tra Sant’Ambrogio, Fumane, Volargne, nel comune di Dolcè, Lubiara, nel comune di Caprino Veronese, e nei pressi di Praorle, nel comune di Cerro Veronese, in Valpantena.
“MARMO” ROSA ASIAGO O ROSA PERLINO O PIETRA DI ASIAGO
Calcare micritico compatto, stratificato, a grana molto fine, talora bioturbato, localizzato nella parte più bassa della Formazione del Biancone depositatasi nel periodo Cretacico inferiore. Affiora con 6-8 strati, “corsi” nell’idioma locale, di spessore variabile tra 20 e 100 centimetri, per uno spessore totale di 3-4 metri. Colore dal rosa pallido al rosa corallo fino al rosa cipria, con sfumature più chiare e più scure e con macchioline tendenti all’avorio. Generalmente tagliato al verso, è molto adatto a lavorazioni con “effetto antico”. I principali siti di estrazione risultano essere ancora oggi nell’Altopiano di Asiago.
L’interesse “geologico” del Mantegna per le cave di materiale lapideo si manifesta ancora in due opere. Nella Madonna delle cave conservata nella galleria degli Uffizi ‒ opera la cui datazione è molto controversa, malgrado la maggior parte dei critici siano concordi con il Vasari a datarla alla fine dell’ottavo decennio ‒ e nel Cristo in pietà sorretto da due angeli, databile tra il 1488 e il 1500 circa, firmato sul sarcofago in basso a destra e conservato allo Statens Museum for Kunst di Copenaghen. Opere realizzate praticamente in contemporanea con le osservazioni e le riflessioni “geologiche” che Leonardo da Vinci in quegli anni esprimeva nella Vergine delle rocce e nella Madonna dei fusi. E, straordinariamente, queste due opere sono il più antico documento pubblico che fornisce esplicite e dettagliate indicazioni scientifiche e tecnologiche sulle modalità di coltivazione nel passato di cave di materiale lapideo.
Ci piace pensare che il Mantegna abbia scelto per raffigurare la pietra dell’unzione del Cristo morto proprio un materiale litoide locale, semplice e umile, utilizzato da secoli nella sua area di provenienza e di consuetudine di vita.
Un’attenta considerazione merita infine anche il vaso dell’unguento. Il materiale lapideo utilizzato è indubbiamente onice, dalla tonalità verde scuro-marrone. Questo materiale potrebbe essere confrontabile con quello tipicamente proveniente dall’Asia meridionale (Pakistan) o dal Medio (Iran) ed Estremo Oriente (Cina).
‒ Silvia Conti
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