Francesco Vezzoli ancora una volta curatore nella sua Brescia. L’intervista
Vezzoli torna a curare una mostra. Questa volta nella sua città natale. Con lui parliamo di arte, peso della storia e anche di come sarà quest’estate. Certamente non riflessiva.
Torna a confrontarsi con la storia, Francesco Vezzoli (Brescia, 1971), in un progetto vincitore del bando Italian Council. L’artista non è nuovo a scorribande tra passato e futuro, né tanto meno al mestiere del curatore. Più volte si è visto a Bolzano, Londra, o a Milano interpretare questo ruolo, più volte si è confrontato con i mostri sacri della archeologia e del nostro “patrimonio culturale”, croce e delizia dei viventi, ma senza timore. Palcoscenici Archeologici, promosso da Fondazione Brescia Musei, si svolge fino a 9 gennaio 2022 e vede, in un poderoso intervento, intersecarsi le opere del famoso artista con le antiche vestigia, attraverso Brixia. Parco Archeologico di Brescia Romana, proseguendo nel Santuario Repubblicano, nel Capitolium, nel Teatro Romano fino al complesso museale di Santa Giulia. Festeggiando insieme alla città la restituzione della Vittoria Alata, tornato nella sua antica collocazione dopo il restauro. Con Vezzoli abbiamo parlato di tutto questo, ma anche della vita.
Gli ultimi anni ti hanno visto impegnato diverse volte in qualità di curatore. Che cosa trovi in questa pratica e come si compenetra con il tuo lavoro d’artista? C’è da dire che molto spesso sei “curatore di te stesso”. Perché? Si tratta di un percorso di emancipazione dalle esigenze del sistema o di un tentativo di autoanalisi?
Penso che in questo momento storico il dibattito all’interno dell’arte contemporanea sia fortemente focalizzato su tematiche identitarie a me molto familiari e da me largamente esplorate. Non mi sento escluso da questo dibattito, ma personalmente mi diverto di più a giocare con la storia che con il presente. Anche Alexander Iolas (Francesco Vezzoli ha curato una mostra alla galleria Tommaso Calabro di Milano, identificandosi con la figura dell’iconico gallerista, ndr) è stato un anarchico di immensa visione talento e di infinita eccentricità. Anche Iolas sicuramente sarà stato penalizzato dalle sue scelte sia pubbliche che private. Ed ha avuto il coraggio della sua identità decenni prima che a chiunque venisse in mente di difenderla. Quindi Iolas è la storia, ma è anche il futuro perché il futuro si può solo costruire sulle spalle di chi ha il coraggio di fare scelte profondamente anticonformiste. Curare una mostra su Iolas per me è proprio come fare un’opera d’arte. Come difendere i valori nei quali credo. E combattere perché non vengano né censurati né dimenticati.
Qui nei Percorsi Archeologici, lo dice il nome stesso, ti confronti con il mondo dell’antico e d’altra parte anche in questo caso non è la prima volta. Come vivi il rapporto con il passato e con il patrimonio culturale del nostro Paese?
Penso che il patrimonio culturale del nostro Paese sia patrimonio del mondo e vada difeso protetto studiato analizzato e anche pubblicizzato e al limite sfruttato se necessario. Il mio rapporto con la storia è più che risolto: trovo nel passato tutti gli stimoli necessari per capire meglio il presente e per evitare gli errori già commessi.
Cosa può fare un artista del presente per sfuggire al peso dell’eredità e al tempo stesso farne tesoro?
Deve vivere il tempo come un infinito presente dove gli istinti le passioni gli ideali e gli stili si rincorrono in un ripetitivo ed effimero palinsesto. E all’interno di questo palcoscenico cercare il proprio ruolo senza velleità di eternità.
Come hai lavorato come artista e come curatore in occasione di questo progetto?
Mi sono posto principalmente il problema dello spazio e in che misura occuparlo. Direi che ogni mia scultura che appare nel percorso è come una nota a piè pagina della grande archeologia e della storia, come una punteggiatura musicale, niente di meno niente di più.
Questo progetto apre dopo l’anno più lungo possibile. Come ha vissuto Francesco Vezzoli i silenzi e gli isolamenti imposti dalla pandemia?
Credo proprio come chiunque altro. Un artista è un artigiano concettuale. Non è né un filosofo né un medico. Non avevo strumenti per analizzare o risolvere. Ho sofferto ed ho aspettato. E ho cercato di rispettare ed aiutare chi soffriva più di me.
E come ha influito tutto ciò sulla tua arte?
Sulla mia credo pochissimo. Le pandemie o le guerre non cambiano gli uomini necessariamente e neanche la loro arte. L’istinto naturale è la sopravvivenza e per quanto ci possa sembrare leggermente immorale, questa prima estate vaccinata e post pandemica temo proprio non sarà riflessiva, ma anzi forse sarà molto frivola e anche un po’ arrapata.
– Santa Nastro
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati