Restaurata la Pietà Bandini di Michelangelo custodita al Museo del Duomo di Firenze
Realizzato (e mai terminato) dal maestro rinascimentale tra il 1547 e il 1555, il capolavoro scultoreo è stato oggetto dal novembre 2019 di interventi di restauro che hanno permesso di scoprire nuovi aspetti sull’arte di Michelangelo. Per i prossimi sei mesi, l’opera sarà eccezionalmente fruibile al pubblico nel cantiere di restauro
Sarà fruibile al pubblico fino al 30 marzo 2022, in una modalità eccezionale, la Pietà di Michelangelo dell’Opera del Duomo di Firenze. La scultura realizzata tra il 1547 e il 1555 dal maestro rinascimentale, nota anche come Pietà Bandini, è stata infatti oggetto di un lungo restauro – iniziato nel novembre 2019 e appena terminato –, e per i prossimi 6 mesi l’Opera di Santa Maria del Fiore ha deciso di lasciare il cantiere di restauro aperto al pubblico, con visite guidate che permetteranno di osservare e scoprire da vicino la Pietà michelangiolesca. “L’Opera di Santa Maria del Fiore è un’istituzione fondata nel 1296 per sovrintendere alla costruzione della Cattedrale e del suo campanile, ed ha come compito principale quello di conservare il complesso monumentale del Duomo di Firenze”, spiega Luca Bagnoli, presidente dell’Opera di Santa Maria del Fiore. “Per questo la conservazione e il restauro del nostro patrimonio storico-artistico sono la ragion d’essere di questa istituzione. Da oggi possiamo aggiungere all’elenco, con grande orgoglio, il restauro della Pietà di Michelangelo, uno dei massimi capolavori di questo artista unico al mondo”.
PIETÀ BANDINI. STORIA DI UN CAPOLAVORO TORMENTATO
La Pietà dell’Opera del Duomo è una delle tre realizzate da Michelangelo, ovvero la Pietà vaticana e la Pietà Rondanini del Castello Sforzesco di Milano. La scultura fiorentina si differenzia dalle altre due per la configurazione della scena rappresentata: qui il corpo del Cristo è sorretto da Maria, da Maddalena e dall’anziano Nicodemo, a cui Michelangelo ha dato il proprio volto, realizzando così un autoritratto. Particolarità, questa, confermata anche dai biografi Giorgio Vasari e Ascanio Condivi, da cui sappiamo che la scultura era destinata a un altare di una chiesa romana, ai cui piedi l’artista avrebbe voluto essere sepolto. Ma l’opera ebbe una storia e una collocazione diverse rispetto alle volontà di Michelangelo: la scultura non viene terminata, e l’artista decide di donarla al suo servitore Antonio da Casteldurante che la vende per 200 scudi al banchiere Francesco Bandini. Quest’ultimo la colloca nel giardino della sua villa romana a Montecavallo. Nel 1649, gli eredi Bandini la vendono al cardinale Luigi Capponi che la porta nel suo palazzo a Montecitorio a Roma e quattro anni dopo nel Palazzo Rusticucci Accoramboni. Nel 1671, il pronipote del cardinale Capponi, Piero, la vende al Granduca di Toscana Cosimo III de Medici. Nel 1674 la Pietà viene trasferita a Firenze, dove rimarrà nei sotterranei della Basilica di San Lorenzo fino al 1722, quando Cosimo III la farà sistemare sul retro dell’altare maggiore della Cattedrale di Santa Maria del Fiore. Nel 1933, la scultura viene spostata nella Cappella di Sant’Andrea, dove rimarrà fino al 1981, anno in cui viene spostata nel Museo dell’Opera del Duomo.
IL RESTAURO DELLA PIETÀ BANDINI
Il restauro – commissionato e diretto dall’Opera di Santa Maria del Fiore grazie alla donazione della Fondazione non profit Friends of Florence, sotto l’alta sorveglianza della Soprintendenza ABAP per la Città Metropolitana di Firenze e le Province di Pistoia e Prato – è stato condotto da Paola Rosa con la collaborazione di Emanuela Peiretti, insieme a un’equipe di professionisti interni ed esterni all’Opera. Le indagini condotte sull’opera hanno rivelato che quello utilizzato da Michelangelo è un marmo proveniente dalle cave di Seravezza (LU), ai tempi di proprietà medicea. L’artista però non era soddisfatto di questo marmo, a causa della sua complicata lavorazione: durante il restauro infatti è emerso che il marmo utilizzato per la Pietà Bandini era difettoso, con inclusioni di pirite e diverse microfratture, motivo per cui l’artista con molta probabilità non ha concluso il lavoro. Per il restauro recentemente condotto – preceduto solo da un intervento di quasi 500 anni fa realizzato da Tiberio Calcagni – si è proceduto intanto con “azioni di pulitura, iniziando dal retro, utilizzando tamponi di cotone imbevuti di acqua deionizzata, leggermente riscaldata”, come spiegato dall’Opera del Duomo. “Per le cere presenti sulla superficie del gruppo scultoreo, sia in modo diffuso che puntiforme – gocciolature dovute alle colature dei ceri posti sull’altar maggiore della Cattedrale di Firenze, sul cui retro l’opera è rimasta collocata per 220 anni – è stato scelto di coadiuvare, nei casi più complessi, la pulitura ad acqua con l’utilizzo di bisturi”. “Il criterio adottato ha portato all’accurata ed equilibrata rimozione dei depositi superficiali e al graduale alleggerimento delle alterazioni cromatiche che interferivano sul carattere pittorico delle superfici, impresso da Michelangelo attraverso il magistrale uso degli strumenti di lavorazione”, sottolinea la restauratrice Paola Rosa. “L’obiettivo del restauro è stato quello di raggiungere una lettura superficiale perspicua, senza soluzione di continuità, riproponendo l’immagine della Pietà scolpita ex uno lapide, probabilmente pensata ab origine da Michelangelo”.
– Desirée Maida
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