I Santuari Yezidi: la ricostruzione di un’identità
Prima il trasferimento forzato per costruire una grande diga, poi la furia dell'ISIS. Lo scorso decennio è stato terribile per gli yezida che vivono in Iraq. Nell'anniversario del genocidio, un archeologo racconta di questa comunità millenaria
Da lontano sembrano piramidi che emergono tra le case, come fari nei porti o sorveglianti che custodiscono cimiteri. Cupole coniche e dentellate come i raggi del sole che puntano al cielo con il loro hilel, una doppia/tripla sfera di metallo misto, sormontata dalla figura del sole, della luna o del pavone, accompagnati da pari, bandierine colorate e purificate con l’acqua santa di Kaniya Sipî a Lalish, che svolazzano sopra al santuario come un segno, un segnale di appartenenza, esistenza o gloria. Una gloria che diviene orgoglio verso ciò che resta di una comunità colpita, che si sta ancora leccando le ferite: gli Yezidi.
IL GENOCIDIO YEZIDA IN IRAQ
Il 3 agosto ricorre l’ottava commemorazione del genocidio yezida perpetrato nel 2014 dall’ISIS nei principali insediamenti di questa comunità in Iraq e precisamente nella zona di Mossul, nella città di Sinjar e nei villaggi adiacenti, con l’accusa di essere “adoratori del diavolo”. Un genocidio che ha causato pesanti danni non solo in termini di perdita di vite umane ma anche al patrimonio culturale, materiale e immateriale, di quella comunità. Secondo il Dipartimento per gli Affari Yezidi del Ministero delle Dotazioni e degli Affari Religiosi del Governo Regionale del Kurdistan Iracheno, lo Stato Islamico ha distrutto 68 siti religiosi e archeologici yezidi.
Dopo il 2014, e in particolare dal 2017, appena è stato possibile dopo la liberazione dei suoi paesi e villaggi, la comunità ha iniziato a ricostruire i propri templi sacri, con difficoltà e amarezza. Difficoltà economica, perché spesso a carico dei fedeli, e amarezza, nata dalla delusione di vedere un luogo spirituale e identitario ridotto in macerie e dall’impossibilità di comprendere come la furia dell’uomo abbia potuto ridursi a tali livelli di crudeltà, sfociati nell’uccidere ed eliminare l’altro solo perché ha un credo, un pensiero o una fede diversi. Nonostante vi siano alcune riserve sull’accelerazione intrapresa nella ricostruzione di queste cupole, i fedeli affermano di non poter attendere ulteriori anni né il sostegno finanziario dagli enti governativi né la vigilanza delle autorità competenti per eseguire gli interventi di riqualificazione e restauro.
FIGURE E PRATICHE NEI SANTUARI YEZIDI
Il santuario yezida è innanzitutto dedicato a un Khas, figura paragonabile a quella di un santo; al suo interno, gli yezidi credono di ricevere una forza spirituale che possa aiutarli nella vita quotidiana, con preghiere per i propri desideri e con invocazioni per ottenere la guarigione dalle malattie. In questi luoghi sacri è inoltre possibile trovare i feretri dei vari Khas oppure un cenotafio altamente simbolico che ricordi il loro passaggio o una loro particolare benedizione. In entrambi i casi, questo sarcofago è chiamato Sindruk.
Tuttavia, nella maggior parte dei santuari, costruiti in pietra locale – un tipo di calcare detto Hallan misto a cemento – non vi è in realtà nessun Sindruk. Ogni santuario ha invece il proprio Micêwir, un custode che si prende cura del luogo e riceve i fedeli accogliendoli con la recita delle preghiere, l’accensione dei çira – lucerne a olio con stoppini che vengono accese per l’occasione dentro la stanza, generalmente quadrata – e la benedizione dei Pari, tessuti colorati appesi alle pareti e annodati. Il nodo può indicare un ostacolo nella vita che si cerca di superare o un desiderio che si vorrebbe esaudire. Dopo aver fatto il proprio nodo, il fedele sceglie del tutto casualmente di sciogliere quello di qualcun altro, augurandosi così di “risolvere” il problema di chi lo aveva realizzato.
Secondo la tradizione locale, è il miracolo del santo ciò che risolve e guarisce le malattie dell’uomo. Ogni custode inoltre, alla vigilia del mercoledì e del venerdì, al tramonto, entra nel santuario per recitare alcune preghiere e accendere le çira. I custodi di questi luoghi sacri fanno sempre e solo parte di una delle tre caste che compongono la società yezida (Sheikh, Pir e Mirid) e tutta la famiglia può dedicarsi al servizio del santuario, uomini e donne.
IL SANTUARIO COME LUOGO DI INCONTRO DELLA COMUNITÀ
I rituali di visita ai santuari religiosi yezidi combinano caratteristiche tradizionali locali con altre ereditate nel corso dei secoli, come pregare verso il sole, circumambulare il tempio, cercare benedizioni dalla polvere del luogo santo, recitare preghiere e testi religiosi attorno agli stoppini e ai sarcofagi dei santi o ancora togliere i sandali quando si entra.
I templi degli yezidi vanno oltre i testi e le preghiere religiose: sono spazi che si trasformano in luoghi sociali in cui i fedeli si incontrano per condividere una particolare occasione, per risolvere un problema che riguarda la comunità o ancora perché qualcuno ha fatto un voto e ha voluto condividere con gli altri la propria beneficenza. Di solito queste celebrazioni si trasformano in incontri in cui gli ospiti scambiano conversazioni tra vari ceti sociali e talvolta possono trasformarsi anche in cerchi di danze con donne e uomini che ballano sulle note della musica tradizionale.
GLI YEZIDI FRA LA DIGA DI MOSSUL E LA FURIA DI DAESH
Negli anni ottanta del secolo scorso, l’Iraq ha dato il via ai lavori di costruzione della diga di Mossul sul fiume Tigri, nel governatorato di Ninawa, a nord della città. Si tratta della più grande diga dell’Iraq e la quarta di tutto il Medio Oriente. La sua costruzione ha però causato l’allagamento di molti siti archeologici della regione, tra cui i santuari yezidi. Tuttavia, alcuni villaggi erano riusciti a trasferire i templi nei nuovi insediamenti indicati dal governo, che però poi, paradossalmente, sono diventati bersaglio delle milizie dell’ISIS.
Ma per gli yezidi la volontà di resistere e rimanere nella propria terra è più forte di tutto. È il peso di un’eredità identitaria, che rappresenta quel bagaglio culturale e orale che distingue la stessa comunità yezida. È una scelta etica, culturale e politica, ma soprattutto è una scelta per il futuro.
– Ghiath Rammo
L’articolo è stato realizzato con il contributo del Dipartimento di Scienze dell’Antichità di Sapienza e MAIKI – Missione Archeologica Italiana nel Kurdistan Iracheno
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati