Reimpiegare l’antico. La mostra alla Fondazione Prada di Milano
Ultime settimane di tempo per visitare la mostra alla Fondazione Prada di Milano, che si è rivelata un successo. Un’occasione per scoprire i tanti riutilizzi dell’arte antica
Recycling Beauty è una mostra imperdibile. Fa parte della serie dedicata da Fondazione Prada alle indagini sul tema del classico. La curatela è, come per le altre, di Salvatore Settis, qui con la collaborazione di Anna Anguissola e Denise La Monica. L’allestimento è ideato da Rem Koolhaas/OMA. Il tema della rassegna è il riuso delle antichità greche e romane da parte dell’arte post-antica dal Medioevo al Barocco. Si tratta di sincretismo culturale, di continuità iconografica della quale non sempre ci si rende conto. Così una scultura di marmo bianco a grana grossa con patina gialla raffigurante l’imperatore Antonino Pio, della metà del II secolo d.C., in seguito sarebbe diventata la rappresentazione di San Giuseppe. Sette teste antiche del Museo di Foligno diventano le Sette età dell’uomo, tra esse sono il ritratto di Marco Aurelio e quello di Adriano. Il Dittico Consolare di Manlio Boezio del 487 d.C. viene reimpiegato tra il VII e l’VIII secolo nella stagione più intensa dell’oreficeria e degli oggetti di piccole dimensioni dell’Alto Medioevo.
LA MOSTRA ALLA FONDAZIONE PRADA DI MILANO
È questa una mostra che fa riflettere sul senso del recupero in ambito artistico, che diviene sempre più serrato in epoca umanistica e rinascimentale, durante la quale l’arte del tempo viene addirittura confusa con l’arte antica. Si veda in questo senso la Testa Carafa, la Protome di cavallo di mano di Donatello, del 1454, a quel tempo scambiata per un’opera antica. La testa presenta una fattura straordinaria, in cui il grande toscano testimonia a tutto campo la sua attenzione per lo studio dell’arte antica che diviene modello imprescindibile per la sua arte. È una svolta epocale di evidente portata di cui, sino a non molto tempo fa, gli studi archeologici non tenevano conto più di tanto. In tal senso l’opera antica abbandona la sua condizione di mero reperto, di rovina, per ritornare a essere opera. Vi è una nuova legittimazione che pone in aperto dialogo i diversi momenti storici, così nelle diverse sculture tardo manieriste di Nicolas Cordier o in quelle del fiammingo François Duquesnoy, protagonista del Barocco romano. Così come nei marmi dei maestri cosmateschi.
LE TANTE VITE DELL’ARTE ANTICA
Salvatore Settis scrive: “Il reimpiego comporta la convivenza di diverse temporalità, dove distanza storica e simultaneità narrativa ed emotiva s’intrecciano di continuo. I marmi antico-romani appartengono allo stesso orizzonte culturale di chi li riusa, e dunque appropriarsene è sentito come naturale. Ma la dimensione-tempo sfugge alla sequenza calendariale; è instabile, può essere manipolata e piegata […]. Perché prelevare dalle rovine un rilievo, un vaso, un capitello? Perché trasportarlo altrove per inserirlo entro un nuovo contesto? Le risposte esplorate negli ultimi decenni vanno in tre direzioni complementari: il reimpiego può avere valore memorativo (volto al passato), fondativo (diretto al presente), o predittivo (orientato al futuro). In mancanza di documenti è spesso difficile decidere quale di queste intenzioni prevalesse di caso in caso; ed è ben possibile che esse fossero simultaneamente presenti. […]”.
Oltre alla ricostruzione della colossale statua di Costantino, collocata nella Cisterna dello spazio della fondazione, tra le opere più toccanti, la Coperta dell’Evangeliario di Ada e il più grande cammeo in pietra dura dell’antichità giunto fino a noi, la Tazza Farnese, di agata sardonica, un piatto da libagione cerimoniale datato II-I secolo a.C., passata probabilmente dall’Egitto a Roma e da qui a Bisanzio, da dove sarebbe tornata in Occidente dopo il sacco del 1204: un capolavoro controverso, che ha fatto parte di molte collezioni, fra le quali quelle di Federico II di Svevia, di Lorenzo il Magnifico e dei Farnese che le diedero finalmente il nome.
Angela Madesani
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