Gli artigiani dell’antico Egitto in mostra a Vicenza

Operai, scalpellini, pittori, scribi: sono gli artigiani che si occupavano della realizzazione delle monumentali sepolture dell’Antico Egitto. Alla lora storia è dedicata la mostra alla Basilica Palladiana di Vicenza

Sarà per l’imponenza delle piramidi, sarà per il mistero delle mummie, sarà per le divinità che assumono sembianze animali o ancora per i tratti della scrittura geroglifica: di certo quella dell’antico Egitto è una delle civiltà che più affascinano, da sempre, grandi e piccini, studiosi e popolo (chi appartiene alla Generazione X ricorderà il tormentone delle Bangles Walk Like an Egyptian del 1986). Se si pensa ai protagonisti di quel mondo remoto, vengono subito in mente i faraoni e gli schiavi: una semplificazione, ovviamente, e a restituire uno scenario più realistico interviene ora la mostra ospitata sotto la grande volta lignea della Basilica Palladiana di Vicenza e organizzata dalle maggiori istituzioni locali insieme al Museo Egizio di Torino.
I protagonisti di questo viaggio tra grandi statue, manufatti di uso quotidiano, ricostruzioni di enormi tombe e preziosi sarcofagi sono i “creatori” evocati nel titolo: coloro che, al servizio dei faraoni, contribuivano con il proprio lavoro a realizzare le monumentali sepolture dell’Egitto antico. La vasta schiera di maestranze, più o meno qualificate, comprendeva operai, scribi, scalpellini, pittori e vari altri artigiani.
Tutto cominciò nel 1905 con una clamorosa scoperta avvenuta grazie agli scavi condotti dalla Missione Archeologica Italiana di Ernesto Schiaparelli, allora direttore del Museo Egizio di Torino. Non lontano dalla Valle delle Regine, sulla sponda orientale del Nilo e di fronte a Tebe (oggi Luxor), venne alla luce un insediamento che presto si scoprì essere stato abitato proprio da chi era impiegato nella costruzione delle tombe reali. Oltre a numerose altre sepolture, a Deir el-Medina furono trovati due grossi vasi pieni di papiri in perfetto stato di conservazione, e poi statue, frammenti di iscrizioni e un’infinità di altri oggetti che permisero di ricostruire uno spaccato di vita quotidiana dell’antico Egitto.

Stele dedicata da Smen, al fratello Mekhimontu e a sua moglie Nubemusekhet

Stele dedicata da Smen, al fratello Mekhimontu e a sua moglie Nubemusekhet

LA MOSTRA SUGLI EGIZI A VICENZA

L’esposizione curata da Christian Greco, “erede” di Schiaparelli nella direzione del museo piemontese, mette quindi a fuoco l’esistenza e le attività degli abitanti di Deir el-Medina attraverso il prestito di reperti conservati a Torino e al Museo del Louvre. Innanzitutto viene ricostruito il contesto del villaggio, e a tal proposito la prima sezione è dedicata a Tebe, la grande città che durante la XVIII dinastia divenne la capitale dell’antico Egitto, definita da Omero come la “città dalle 100 porte” e nella quale sorgeva il grandioso tempio di Karnak dove si celebravano le maggiori divinità. Attraversato il Nilo, nella Valle dei Re e in quella delle Regine riposavano invece le spoglie dei faraoni che, come dimostra la monumentale scultura con la triade formata da Ramesse II seduto tra il dio Amon e la dea Mut, legittimavano il loro potere mediante il rapporto con il divino e, grazie al ruolo di intermediazione tra uomini e dei, venivano considerati i custodi dell’ordine cosmico. Già queste poche parole bastano a far comprendere come per i faraoni fossero indispensabili tombe sontuose, tanto più se si considera che per gli antichi Egizi la morte rappresentava un momento di passaggio verso una vita eterna.
Ecco allora la necessità di disporre di schiere di manovali e artigiani da impiegare nelle imprese architettoniche e, come nei villaggi operai sorti in Italia tra fine Ottocento e primi decenni del Novecento, si ritenne che fosse più pratico farle risiedere vicino al “luogo di lavoro”. Fu con il faraone Amenhotep I e soprattutto con il figlio Thutmosi I (1493-1483 a.C.) che si cominciò a costruire l’insediamento di Deir el-Medina ‒ lo testimoniano dei mattoni con cartiglio ‒ e ben presto vi si trovarono a vivere circa 120 famiglie. Quelle persone ad esempio costruirono e decorarono la tomba della regina Nefertari (morta nel 1255 a.C.), una delle sepolture più belle ritrovate da Schiaparelli: gli oggetti esposti accanto al modellino, tra cui scalpelli, mazzuoli, asce, bastoncini per tracciare i segni, fili a piombo, ceselli, pennelli, persino una lampada e un accendino, ci proiettano all’interno di quegli incredibili cantieri. E non si pensi che le tombe su tre livelli fossero prerogativa solo dei faraoni: anche gli abitanti di Deir el-Medina venivano tumulati in strutture simili, come documenta la pietra sommitale della piramide dello scriba reale Ramose su cui sono incisi dei brani del Libro dei morti riferiti al viaggio del dio Sole attraverso la notte e il suo risorgere.

Statuetta di Tauret

Statuetta di Tauret

NEL CUORE DI DEIR EL-MEDINA

Eccezionale è l’abbondanza delle fonti scritte: a Deir el-Medina si sono recuperati papiri con “giornali della necropoli” su cui venivano riportate le attività amministrative e l’organizzazione del lavoro, mentre altri recano schizzi di figure proprio come se fossero degli sketchbook. Analoga funzione avevano gli ostrakon, frammenti di calcare su cui si esercitavano gli artisti: in mostra ne vediamo con figure femminili, con un sarcofago, con un uomo seduto che tiene un fiore di loto. Altri invece aprono degli squarci sulla vita quotidiana: un personaggio che ha acquistato delle finestre, un uomo che conduce le mucche al pascolo, una donna che allatta un bambino.
I reperti ci accompagnano poi all’interno delle case, dove sono stati ritrovati vasi e bottiglie, preziosi frammenti di mobili, una scopetta e addirittura degli strumenti musicali come un flauto o una lira a bracci asimmetrici. Non si può immaginare quale fosse la musica ascoltata dagli Egizi, ma di certo era una componente significativa nelle feste religiose. Nelle dimore non mancavano le raffigurazioni sacre a protezione degli abitanti i quali, grazie alle piccole stele illustrate, instauravano un rapporto quotidiano con il divino e con gli antenati. Eccezionale quella con incise tante orecchie: un’invocazione affinché il Dio prestasse ascolto alle richieste del dedicante. E altrettanto affascinante la scultura in legno della dea Tauret che, con fattezze di ippopotamo, coda di coccodrillo, zampe leonine e una tipica parrucca “all’egizia”, vegliava su partorienti e nascituri.

Sarcofago della Signora della Casa Tariri

Sarcofago della Signora della Casa Tariri

DALLA VITA ALLA MORTE NELL’ANTICO EGITTO

Infine l’attenzione si sposta sull’attraversamento della soglia tra la vita e la morte: un passaggio che consentiva al defunto di intraprendere il suo viaggio verso la rinascita. Si incontra uno splendido sarcofago, il sacro involucro su cui una defunta è raffigurata con il collare e la parrucca decorata con perline, ghirlande e fermagli. Sul petto si dispiegano le ali della dea Nut, in segno di protezione, e il resto è ricoperto da scene funerarie e iscrizioni. Ma essenziale era soprattutto conservare il corpo: quello della Signora della Casa Tariri, ad esempio, è giunto fino a noi ‒ e possiamo intuirne la sua presenza al di sotto delle bende ‒grazie alle tecniche messe in atto dalla florida industria funeraria che, con grande cura, si occupava del cadavere purificandolo e rendendolo incorruttibile.
Per affrontare la vita dopo la morte, nella sua “dimora eterna” il defunto veniva circondato da un preciso “equipaggiamento” che comprendeva oggetti personali, cibo, strumenti, vasellame e statuine: nelle vetrine di Vicenza spiccano i corredi funerari provenienti dalle tombe della regina Nefertari e del faraone Seti I.
L’intimo desiderio di ogni antico Egizio era che il proprio nome non venisse dimenticato, ma continuasse per sempre a risuonare nelle bocche dei viventi”, si racconta nel catalogo. E se in questo nostro XXI secolo l’eternità è ormai un’illusione, senza dubbio la lontana civiltà degli Egizi, con la sua cultura raffinata, la sua religiosità complessa e la sua perizia tecnica, continuerà a lungo a suggestionarci e, forse, a svelarci i suoi misteri.

Marta Santacatterina

Articolo pubblicato su Grandi Mostre #32

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Marta Santacatterina

Marta Santacatterina

Giornalista pubblicista e dottore di ricerca in Storia dell'arte, collabora con varie testate dei settori arte e food, ricoprendo anche mansioni di caporedattrice. Scrive per “Artribune” fin dalla prima uscita della rivista, nel 2011. Lavora tanto, troppo, eppure trova sempre…

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