L’incredibile storia del fregio di Enea in mostra a Roma
Cinque delle dieci tele che compongono il fregio di Enea dipinto da Dosso Dossi vanno in mostra alla Galleria Borghese. Svelando i dettagli di una storia dalle vicende alterne, fra scomparse e ritrovamenti
La ricerca sulla pittura di paesaggio della Galleria Borghese, cominciata nel 2021, si conclude con un’operazione inedita: la mostra Dosso Dossi. Il fregio di Enea, che riunisce le tele, a oggi conosciute, incluse nel ciclo di historiae legate all’eroe virgiliano.
Tra il Palazzo Ducale di Ferrara e il Castello Estense sorgeva il Camerino d’alabastro che Alfonso I d’Este volle fosse decorato dal pennello del maestro di corte Dosso Dossi. Tra il 1518 e il 1520 compose dieci tele ispirate ai primi sei libri dell’Eneide, allora collocate sopra i Baccanali di Tiziano e vicino al Festino degli dei di Giovanni Bellini.
La mostra, a cura di Marina Minozzi, aperta fino all’11 giugno 2023, è il frutto della preziosa collaborazione con il Louvre di Abu Dhabi, la National Gallery of Art di Washington D.C. e il Museo del Prado di Madrid. Nella sala del fregio sono stati esposti altri capolavori di Dosso Dossi già presenti nella Galleria: la Melissa e Apollo e Dafne insieme ai tondi con Venere e Diana di Albani, in un dialogo armonioso tra soggetti e scenari.
LA STORIA DEL FREGIO DI DOSSO DOSSI
Le tele del ciclo di Dosso Dossi sono parte di una storia intricata e non ancora conclusa. Negli ultimi anni del Cinquecento, con il passaggio di Ferrara allo Stato Pontificio, i camerini estensi furono smantellati e nel 1608 Scipione Borghese condusse a Roma le tele virgiliane, arricchendo il panorama artistico della città, dove si conosceva il fregio solo in forma di affresco e di stucco e introducendo riflessioni sul colorito veneziano. Dosso infatti, prima di attingere dalla scuola ferrarese del Quattrocento, apprese i segreti di maestri veneti come Giorgione.
Fino al Settecento negli inventari si ha vaga traccia dei dieci dipinti a Roma. Nell’Ottocento poi essi furono acquistati dal pittore e direttore del Prado José de Madrazo. Quando fu allestita la mostra Dosso Dossi. Pittore di corte, nel 1998, si conoscevano solo tre tele su dieci, ma nel ventennio successivo ben quattro tele sono ricomparse. Le svolte più recenti sono avvenute nel 2000, quando a New York si scoprirono due quadri del fregio, ora di proprietà del Louvre di Abu Dhabi, e nel 2014, quando Vittorio Sgarbi ritrovò un altro tassello del ciclo pittorico in una collezione privata.
L’ICONOGRAFIA DELLE TELE DI DOSSO DOSSI
Dosso Dossi raffigura Enea nelle vesti dell’eroe fondatore: un’iconografia che lega la storia virgiliana al papato e al rapporto con la città di Roma. Secondo quanto spiega lo studioso Peter Humfrey, le vedute e i parerga del maestro non hanno un’accentuata pretesa narrativa. Il pittore, coetaneo di Ariosto e di Equicola, conosceva poeti e umanisti, ma le sue tele non sono solo erudite: il focus è sulle conflagrazioni e sui contrasti, nella resa di una sorta di paesaggio universale. Il figlio di Venere è in secondo piano, emergono natura e figure minori. Affiora anche il divertimento per la varietas: compaiono marine, montagne, città, templi. Perfino la foggia dei costumi è mutevole. Gli abiti sono ora antichi, ora moderni, ora esotici ed eccentrici, senza una particolare cura filologica. Da ultimo si evince la fascinazione di Dosso per Bosch in quella tela infera scoperta da Sgarbi, che dovrebbe avere un suo pendant.
Abbondano qui, in un climax di chiaroscuri e con equo estro fiabesco, scene cupe, mostri chimerici. Figure che però non sembrano richiamarsi ai tre polittici del fiammingo presenti a Venezia, ma ad altri soggetti, forse visti da Dosso alla corte di Ferrara o a quella di Mantova.
Francesca de Paolis
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