Francesco Vezzoli e il mito dell’antica Roma. Innesti tra antico e contemporaneo
La grande mostra a Palazzo delle Esposizioni torna sul tema archeologico, così in voga negli ultimi anni fra i luoghi e le pratiche del contemporaneo. Un’occasione per riflettere, ancora e ancora, sul nostro rapporto con la storia e la classicità
La “dolce vita” di Francesco Vezzoli (Brescia, 1971) è sontuosa mistura di classico e di pop, di kitsch e di camp, di vita e di morte, di marmo e di carne, di polvere e glitter, di pathos e studium. Tra venerazione e dissacrazione, immagini e archetipi consumati a bordo di una giostra in soggettiva.
Palazzo delle Esposizioni – con Marco Delogu alla Presidenza – accoglie così Vita Dulcis. Paura e desiderio nell’Impero romano, mostra in forma di opera (o viceversa), che vede Vezzoli nella doppia veste di artista e curatore, al fianco dell’archeologo Stéphane Verger, dal 2020 direttore del Museo Nazionale Romano, le cui collezioni sono materia prima e sostanza proteiforme del progetto: capolavori noti e reperti inediti, tirati fuori dai depositi, abitano lo spazio nell’ordinata articolazione di sette capitoli, suddivisi tra le sette sale espositive intorno alla rotonda centrale. Sette macro temi, sintetizzati da altrettante citazioni latine: “PARA BELLUM”, dedicata al tema della guerra e della virilità; “ANIMULA VAGULA BLANDULA”, omaggio all’Imperatore Adriano e all’amore folle per Antinoo; “DUX FEMINA FACTI”, intitolata alla celebrazione della figura femminile; “CERTA OMNIBUS”, sulla liturgia della morte e il culto dei defunti; “RIDENTEM DICERE VERUM”, banchetto dionisiaco incarnato dalla figura di Trimalcione, in un flashback tra Petronio e Fellini; e infine “UBI POTENTIA REGNAT”, magniloquente galleria di ritratti degli imperatori romani, cui fa da controcanto “MIXTURA DEMENTIAE”, caotica evocazione della caduta dell’Impero.
Tanti i capolavori da scoprire, tra cui il torso monumentale di Domiziano vestito da Ercole combattente, le diverse raffigurazioni muliebri (Venere, Medusa, Diana), le cinquanta lapidi marmoree dispiegate come un unico, possente monumento, fino all’iconico Ermafrodito dormiente (II sec. a.C.).
IL CINEMA E IL MITO DELLA GRANDE ROMA
Statue, busti, teste, ex voto, epigrafi funerarie, perfettamente e volutamente con-fusi con opere dello stesso Vezzoli, trovano poi nel cinema uno specchio ideale, luogo di celebrazioni e intersezioni, in cui l’immagine del passato si infrange e si rifrange: ritagli di pellicole e frammenti di pietra scandiscono all’unisono il percorso, nell’intricata tessitura del racconto di grandi classici, del cinema come della statuaria antica. Dall’epico Cabiria (1914), diretto da Giovanni Petrone e sceneggiato da D’Annunzio, con i suoi audaci viraggi cromatici, al mitico peplum kubrickiano Spartacus; dalle scene omoerotiche in slow motion tratte da Sebastiane di Jarman, film recitato in latino, al Satyricon di Fellini (1969) e a quello diretto da Polidoro nello stesso anno, con protagonista Ugo Tognazzi; dal Gladiatore di Ridley Scott alla magnetica Elizabeth Taylor che fu il volto di Cleopatra per Mankiewicz, fino a Trailer for a Remake of Gore Vidal’s Caligula, opera video con cui Vezzoli partecipò alla Biennale di Venezia nel 2005. Un collage di spezzoni, proiettati su grandi schermi, a sigillare le varie sezioni e a rappresentare l’estesa costellazione iconografica costruita nel tempo intorno al mito della romanità.
E sono tutte forme e formule della memoria, fra esperienza intima del ricordo, mitologie popolari e classificazione storica, apparecchiate qui su un sapiente teatro contemporaneo: il disegno di luci e ombre porta la firma di Luca Bigazzi, tra i maggiori direttori della fotografia in Italia, mentre i display sono volumi geometrici, metafisici, nell’efficace allestimento dell’artista Filippo Bisagni.
LE OPERE DI VEZZOLI TRA CLASSICO E POP
Francesco Vezzoli, con la sua cifra pop, sempre in bilico tra profondità e superficie, tra grazia e sottile perversione, offre in pasto ai puristi lo scandalo di un esercizio della contaminazione spinto fino all’estremo, riservando a tutti gli altri l’occasione di una liberazione dello sguardo, della traiettoria, dell’emotività, dinanzi alla sacralità e all’intoccabilità del reperto.
Procedendo all’indietro e oltrepassando Winckelmann e Cavaceppi, Vezzoli accosta al candore ideale del marmo il ritorno all’origine policroma delle statue, colorando con pigmenti acrilici alcuni dettagli di volti, resuscitati così in chiave glam, drammatica, erotica; allo stesso modo eccolo tornare, come novello Nicolas Cordier, alla pratica remota dei pastiche in voga tra Cinquecento e Seicento, quando era consuetudine completare le statue con addizioni antiche di diversa provenienza e integrazioni moderne in stile, tirando a lucido le superfici e mimetizzando le commessure.
Identità, funzioni e simbologie delle singole icone vengono così ripensate, nel solco di una contraffazione onirica, quasi a cavar via da ogni immagine altre possibili immagini sepolte, stratificate, pescate dai cliché di oggi e di ieri o attinte dal proprio atlante interiore.
Da qui nascono molte delle opere in mostra. Achille! (2021), con il suo elmo e un occhio cerchiato d’azzurro, è una star scolpita in un blocco di marmo italiano del XIX secolo, celebrato su un plinto obliquo futuristico; e a proposito di musica e di show, David Bowie rivive nella serie di teste di Antinoo (Portrait of Antinous as a Rock star, 2023), sei pezzi unici in gesso, in cui il celebre fulmine rosso, make up ideato per la copertina di Aladdin Sane, marchia i tratti gentili del giovane amante di Adriano. È così, ne Lo sguardo di Adriano (2018), la pittura torna a reinventare una testa antica (un marmo romano del 117-138 d.C.), restituendole gli occhi, con tanto di eye liner e mascara, insieme a una certa, buffa malinconia. Ancora, diventa una primitiva dea della fertilità la nota influencer citata in Portrait of Kim Kardashian (Ante Litteram), una testa del III sec. d.C. innestata su un corpo bronzeo dalle forme prominenti, mentre in Non ho l’età un volto di donna anziana di epoca Flavia viene montato su un virginale corpo in marmo rosa del Portogallo, riproduzione di una Venere di Prassitele. Citazione metafisica per la Musa della Satira, fusione tra una statua romana acefala e una lucente testa ovale à la de Chirico, mentre sprofonda in una dolcezza tragica il viso di una piccola testa del I sec. d.C., su cui Vezzoli posa una corona aurea di foglie di plastica, lasciando emergere dal viso truccato i tratti di un adolescente ermafrodita, di una figura sacerdotale o di una maschera cinematografica d’antan.
ARCHEOLOGIA ANCHE ALLA FONDAZIONE PRADA
Vita Dulcis mette in scena dunque una visione radicalmente contemporanea del discorso archeologico, che spazza via qualunque canonico residuo d’impostazione museografica, cronologica, didattica, prediligendo un ragionamento orientato da suggestioni concettuali e visive, da folgorazioni improvvise, da incontri fortuiti lungo i corridoi del museo e dei magazzini, scegliendo di rivisitare il passato nella sua piena aderenza al presente, così come si riorganizza nello sguardo degli autori.
La grande Roma, con i suoi fasti e le sue rovine, diventa allucinazione personale, ipertesto espositivo e giocoleria iconografica, in un continuum storico-artistico che precipita i miti di oggi e di ieri nel mare magnum di una postmodernità slabbrata e prolungata fino a questo incipit inoltrato di secolo. Del resto, nella corsa seducente e oscura delle nuove tecnologie, del mercato globale, dell’economia virtuale e dell’intelligenza artificiale, l’arte sembra essere parallelamente e convintamente ancora attratta da quell’altro inesauribile serbatoio che è la storia, volgendo, come l’Angelus Novus, il capo all’indietro, in cerca di chissà quale àncora, spinta o riparo. E allora mostre sui depositi dei musei, mostre sulle collezioni, mostre sugli archivi, mostre che fondono opere attuali con capolavori del passato.
Non è un caso che uno dei più significativi palcoscenici dell’arte contemporanea, la Fondazione Prada di Milano, abbia dedicato le sue due ultime esposizioni al tema dell’antico: la grande personale di Elmgreen & Dragset, costellata di capolavori archeologici, e poi il progetto di Salvatore Settis, Recycling Beauty, in cui è la prospettiva curatoriale ‒ insieme all’intelligente allestimento ‒ a piantarsi in seno alla contemporaneità, nella maniera di maneggiare la materia archeologica e nella volontà di ribadire, attraverso di essa, un vitalismo, una fragilità e insieme una resilienza dell’opera e del reperto che, nel corso dei secoli, si sono lasciati attraversare e modificare dalla forza convulsiva del presente.
ARCHEOLOGIA E MONDO CONTEMPORANEO
L’omaggio del Palazzo delle Esposizioni alle alte luci e agli abissi della Capitale è allora una macchina scenica costruita intorno alla questione perpetua della relazione con l’antico.
La nostra maniera di relazionarci e di intendere la storia (di maneggiarla, di rispettarla, di venerarla, di saccheggiarla, di farla pezzi o ricucirla), che a sua volta raccoglie l’eredità del Novecento: la frattura con la tradizione, di cui si è nutrito il secolo breve, a partire dal gesto irriverente e trasgressivo delle avanguardie, non ha certo arginato il fascino per l’iconografia greco-romana, recuperata e riletta in mille rivoli e declinazioni. E dagli Anni Sessanta in avanti, fra Arte Povera e arte concettuale, poi tra diverse esperienze pittoriche, a imporsi con rinnovato slancio non è stata solo l’estetica del frammento e del reperto, la forza del torso come opera autonoma, la suggestione delle superfici consunte e scabre. A intrigare gli artisti è stato anche il viaggio nel cuore dell’archeologia medesima, con i suoi metodi, i suoi processi, il lavoro di scavo, di ricomposizione, di tassonomia, analisi e interpretazione.
Sull’altro fronte, è proprio l’archeologia a essersi faticosamente auto interrogata, provando (con fatica) a distaccarsi da un’attitudine tecnicista, elitaria, accademica, autoreferenziale. Quella disciplina che il grande archeologo Ranuccio Bianchi Baldinelli, nel suo Archeologia e cultura (1961) accusava di un ripiegamento sterile su sé stessa e invitava ad aprirsi alle sollecitazioni provenienti da altri campi del sapere (il cinema, la politica, l’arte contemporanea, la letteratura, le scienze, la psicanalisi). Una critica da cui proprio Settis ripartiva, nella sua splendida introduzione a un altro testo fondamentale, Utopia del passato, scritto da Nikolaus Himmelmann quasi vent’anni dopo e dedicato al rapporto tra archeologia e forme della cultura contemporanea: “‘Archeologia e cultura’ era una sfida agli archeologi, accusati di incultura, a misurarsi col mondo (con gli altri intellettuali). Oggi la sfida dev’essere ripetuta, ma mirando più in alto; il confronto con altri campi del sapere, con altri ‘intellettuali’, deve mescolarsi al confronto con le immagini del mondo antico diffuse nella cultura di tutti, a tutti i livelli”. Pagine dense, scritte quarant’anni fa e oggi straordinariamente risonanti, chiuse con l’auspicata conquista di un “passato non immobile, non ‘classico’, non modello: ma, proprio perché punto d’incontro di tanti pensieri e immaginazioni e utopie, specchio privilegiato per le nostre riflessioni sul presente e sul futuro”.
UN’IDEA DI FUTURO
Con Vita Dulcis si assiste a un nuovo esperimento espositivo, figlio di questa lunga storia di riletture e rimaneggiamenti del dato, del reperto, del mito, in una parola del fenomeno storico che è al centro degli studi archeologici e che continua a subire trasformazioni capaci di generare, per dirla ancora con Himmelmann, “messaggi politici“. E politico è qui un attributo usato stricto sensu, pensando ad esempio a come l’immaginario classico sia stato piegato in funzione di discorsi ideologici, nazionalisti, propagandistici. Ma è anche un termine dal respiro largo, che in sé contiene il riferimento allo spazio pubblico, alla polis, alla collettività, al potere, e dunque a quel regime della visione e a quella dimensione estetica che sono occasioni di tessitura simbolica e linguistica, portatrici di senso condiviso e generatrici di immaginari comuni. L’arte, la pubblicità, il cinema, il mondo social e digitale attingono a piene mani dall’Olimpo della storia e della classicità, facendone ‒ con risultati di diversa efficacia e caratura, e con tutto il rischio di banalizzare ‒ ulteriore strumento di costruzione e decostruzione del presente. “Tradizione non è adorare le ceneri, ma custodire il fuoco”, recita un celebre aforisma attribuito a Gustav Mahler. Ma, chiosa Settis nel suo recente saggio Incursioni, “custodire il fuoco non basta: perché ci scaldi ancora dobbiamo alimentarlo con la legna che noi stessi avremo raccolto ogni giorno nel bosco”.
Helga Marsala
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