Il Telamone Frankenstein ricostruito ad Agrigento. Un’idea grande, più che una grande idea
La ricostruzione delle rovine della Valle dei Templi, già interessata in passato da curiosi esperimenti, sembrerebbe preconizzare un futuro da parco giochi o da Cinecittà per l’importante sito archeologico. Crogiolandosi in quella tendenza alla spettacolarizzazione tanto amata dal nostro presente
C’è una splendida fotografia di Fosco Maraini, che potremmo collocare negli Anni Cinquanta, che coglie un giovane, adagiato in posizione supina, come un dormiente, piccolo, sull’addome di un Telamone del tempio di Zeus, assemblato sul suolo, che lo accoglie come un grande giaciglio. Quella foto è la quintessenza di un rapporto atavico e secolare, che il fotografo ha saputo isolare nella sua sostanza poetica. Quell’uomo, nel fare quasi per gioco di quel frammento il suo giaciglio, con quel suo gesto semplice, ci dice tutto dell’intimità guadagnata e goduta nel rapporto con quei frammenti titanici. Io stesso, “per privilegio d’anagrafe” ricordo bene quando con le antiche vestigia della Valle dei Templi si potevano stabilire rapporti sensoriali e forme di dialogo mai più sperimentabili nei decenni a seguire gli anni Ottanta del ‘Novecento.
Le rovine del tempio di Zeus ad Agrigento
Comunque sia, chi è stato almeno una volta nella vita in visita alle maestose rovine del tempio di Zeus Olimpio, ad Agrigento, non avrà potuto fare a meno di cogliere l’ineluttabilità del senso della perdita; ma anche di trovarsela tutta lì quella perdita, nella sua ricchezza, in ogni suo frammento, nel suo (complesso) disordine proprio della rovina, della grande storia che ‘qui giace’ (nella ‘dopostoria’) per consegnarsi ai secoli ed essere decifrata, studiata, immaginata, sognata, ma non per questo manipolata da una certa tendenza, tutta contemporanea, di offrire i materiali del passato con i codici di una spettacolarizzazione, come linguaggio privilegiato e quasi esclusivo per capire le cose. Purtroppo, questo nostro tempo ci contraddice.
Di quel grandioso tempio dorico eretto nel 480 a.C. per celebrare la vittoria di Akràgas sui Cartaginesi (di dimensioni quasi doppie rispetto al Partenone) la storia non ne ricorda altro che le sue rovine, già dopo il terremoto del 1401.
Le rovine di Agrigento da Winckelmann a Politi
Nel ‘Settecento Winckelmann, il grande storico della classicità antica e nuova, lo studia in ogni frammento e ne indica una ideale (mai tentata) ricostruzione. Non è mancata nel corso della storia la lunga sequenza dei viaggiatori che con i loro preziosi taccuini ci hanno consegnato, tra minuziosa realtà e “desiderata” illustrati, un ampio e mutante reportage di quel sito abitato dal più maestoso “ingombro” dell’antichità greca. Da Houel (nel 1776) a Charles Robert Cockerell (nel 1824) e Raffaele Politi (1825) …, fino agli studi più moderni di un ‘Novecento in cui le scuole di una evoluta archeologia sono state chiamate a risolvere il rebus di una corretta lettura del sito. E dunque, come scrive lo studioso Elio Di Bella in un suo articolo, quelle grandiose rovine “perdono il fascino estetico per acquisire dignità scientifica nelle campagne di scavo condotte dagli archeologi. Lo stesso Telamone viene analizzato, dissezionato e ricomposto nel tentativo di giungere a una ricostruzione, ma perde nei disegni il suo fascino evocativo per acquisire una dimensione scientificamente fondata. I nuovi rilievi e disegni del Telamone sono ora mirati a chiarire i dubbi che riguardano la sua posizione e il suo ruolo strutturale nel Tempio”.
Seguendo quei rigori scientifici, si potrebbe concludere che, se non si vogliono portare a termine missioni impossibili e perfino artificiose di ricostruzione e di manomissione di questo importantissimo sito, Il massimo che si può fare – ed è già stato fatto nel 1965 – è ricostruire ed evocare l’interezza esemplare di uno dei telamoni (i titanici inserti scultorei antropomorfi che ritmavano il colonnato del tempio rievocando la figura mitologica di Atlante). E così, già sessanta anni fa, il sovrintendente del tempo, Pietro Griffo, espone in permanenza nel nascente museo archeologico (che oggi porta il suo nome) il primo Telamone ricostruito, contestualizzandolo in un efficace e corretta operazione museologica di lettura comparativa e suggestiva del frammento.
I Telamoni ricostruiti
Si potrebbe concludere, senza bisogno di smarrirci sulla strada di John Ruskin, e della sua esegesi delle rovine (concetti preziosi ma troppo arditi per la cultura di massa), che tutte le operazioni di salvaguardia, conservazione e valorizzazione di grandiose vestigia come il Tempio di Zeus, non autorizzano nessuno (o così credevamo) a condurre azioni di mesmerismo archeologico nel tentativo di rimontare in situ il meccano della storia con i suoi stessi resti.
Sembrava che quella ricostruzione minuziosa del Telamone, integrata magnificamente nel museo, potesse bastare anche al nostro presente, a fornire al fruitore tutte le suggestioni e le informazioni necessarie e possibili per valorizzare e contestualizzare il frammento, senza bisogno di intervenire sul sito naturale del tempio. Ma sembra non sia così, o almeno non è più così, secondo la visione che il 29 febbraio 2024 è stata svelata con un (nuovo) intervento di ricostruzione ed impianto di un Telamone, montato utilizzando “più di 90 frammenti che appartenevano ad almeno otto diversi telamoni”. Curatore del progetto è l’architetto Carmelo Bennardo, attuale direttore del Parco archeologico di Siracusa, mentre l’esperto scientifico è l’architetto Alessandro Carlino.
Un progetto che – si legge nel sito della Regione Siciliana va inserito in un più ampio programma di valorizzazione dell’area dell’Olimpeyon finanziato finora con un cospicuo investimento di 500 mila euro proveniente dai fondi del Parco, e che prevede un’importante fase futura di ampliamento dei programmi di ricostruzione e di valorizzazione dell’intero sito.
Qui non si tratta di fare le pulci alla complessità di un progetto più ampio di cui conosciamo in sintesi solo i propositi (non sarebbe corretto), né quello di porsi ‘a disturbo delle istituzioni culturali di una città, come Agrigento che, con molte difficoltà ma con impegno, stanno cercando di modellarsi una fisionomia possibile per interpretare il ruolo di Capitale della Cultura e che vede anche in tutte le operazioni progettate sul suo immenso e inestimabile parco archeologico, il fulcro di una rinascita culturale ed economica.
Le polemiche sul Telamone
Qui il problema, forse più banalmente, sta nel mero risultato estetico di superficie ottenuto e del contesto in cui la ricostruzione del titanico frammento si colloca. Questo svelamento, officiato dal Presidente della Regione Siciliana, Renato Schifani, e tutta la corte istituzionale e civica che in questi eventi si raccoglie, ci suggerisce delle domande: – cosa veramente è stato aggiunto alle nostre conoscenze e alla nostra percezione di quel patrimonio e di quella storia archeologica? Questa ricostruzione, sgraziata per necessità, questo scheletro archeologico eretto e montato come una protesi, su un espositore di acciaio coltan, non costituisce un forte elemento di discontinuità e persino di disturbo in un contesto paesaggistico-archeologico consolidato nei secoli?
Inoltre l’impulso scenografico, più che archeologico, di assemblare i frammenti di altri telamoni per costituirne un altro non è una forzatura ricostruttiva eclatante? Cos’è esattamente questa “creatura” che sembra nata dalla fantasia di Mary Shelley o dalle tavole della Marvel, issata per turbare l’austerità irreversibile e grandiosa delle ‘rovine’, nel loro eterno e indisturbato riposo?
Che strani esperimenti in questa Valle dei Templi: il titanico “Icaro caduto” di Mitoraj (inserimento scultoreo fuori-scala collocato in permanenza nel 2011 davanti al tempio della Concordia), per interpretare la posa della caduta e “simulare” l’idea dell’antico frammento, ha dovuto “assumere” la “postura” della rovina (ancorata al suolo). Il Talamone del Tempio di Zeus, che era già nella posa e nello status di rovina (quello che i secoli gli hanno assegnato), viene issato dal suolo nell’innaturale posa di un corpo senza vita eretto con un vistoso sostegno. Il risultato è piuttosto “buffo”, direi, per via delle consunzioni e mutilazioni plastiche dovute all’usura del tempo che la posizione eretta esalta imponendosi nel contesto.
Tutto questo sembra più “un’idea grande”, che “una grande idea”, e preconizza per tutti noi la trasformazione del sito del Tempio di Zeus Olimpio dalla sua dimensione mitica ad una futura “cinecittà” della storia e dell’archeologia; e nel contempo ci fa ricordare quell’aforisma ironico di Ettore Petrolini che così recita: “Dalle zanne di un elefante possono farsi tanti pettini, di tanti pettini nemmeno un elefante”.
Alfonso Leto
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