A Milano una mostra per riscoprire Vulci, la fucina produttiva degli Etruschi
Come mostra inaugurale della serie dedicata alle metropoli etrusche, la Fondazione Rovati ha scelto Vulci. Si riuniscono a Milano alcuni tra i tesori inestimabili ritrovati nelle sue necropoli, in prestito dai musei di tutto il mondo
Delle dodici città-Stato che – secondo la tradizione storica – costituivano la Lega etrusca, Vulci fu probabilmente la più celebre come fucina produttiva e luogo di importazione di ceramiche ateniesi. Centro ricchissimo, abitato da una raffinata aristocrazia, piuttosto esigente in materia corredi funebri e recipienti da simposio, che dava lavoro ad artigiani locali e stranieri. È questo il motivo (ma non l’unico) che ha spinto la Fondazione Luigi Rovati di Milano a inaugurare proprio con Vulci la loro serie di mostre tematiche sulle metropoli dell’antica Etruria.
Le metropoli Etrusche e le ragioni della mostra alla Fondazione Rovati
Il fenomeno dello sviluppo urbano è un elemento fondamentale della storia di questo popolo: attraverso i secoli, dal X fino all’annessione a Roma nel 90 a.C, gli Etruschi vissero una straordinaria ascesa dal punto di vista economico, sociale e delle città. Trovandosi in terre di per sé piene di risorse naturali – soprattutto minerarie e di metalli – seppero cogliere le opportunità fornite dal contesto favorevole, facendone canale di ricchezza e potere. Si attivarono presto, mettendo in piedi una fitta rete di commerci con i popoli più e meno vicini, che bussavano alle loro coste in cerca di risorse, scarse nei loro Paesi. Si parla dei Sardi, dei Fenici, ma soprattutto dei Greci: fu grazie agli intensi scambi con questi ultimi, che gli Etruschi orientalizzarono i loro costumi, sviluppando raffinati gusti in materia di abbigliamento, rituali e ceramiche. Senza i contatti con la cultura greca, pratiche come il simposio non sarebbero mai giunte in Etruria.
L’argomento delle metropoli è dunque ricco di spunti per farne una serie espositiva. Vulci è la prima tappa; ancora è ignoto quale sarà il seguito, che per ora preannuncia solo Tarquinia. Come già si accennava, la città sorta sulla riva destra del Fiora è stata scelta tanto per la sua produttività artigianale, quanto per il suo triste passato (recente) di sito archeologico depredato dai tombaroli e persino dagli scavi “ufficiali”, ma che ancora erano carenti di rigore scientifico. Le vicende che la coinvolsero fin dalle ricerche coordinate dalla moglie di Luciano Bonaparte (fratello di Napoleone) hanno condotto a una grandissima perdita di informazioni e dispersione di materiali. Reperti finiti ovunque, ai quattro angoli del mondo, che rendono ancor più difficile comprendere e apprezzare la storia di Vulci. La mostra in Fondazione Rovati vuole dare il suo contributo – pur nei limiti di quanto selezionato per l’occasione – alla riunione delle fonti e alla loro diffusione presso il pubblico italiano.
Breve storia di Vulci: fucina produttiva degli Etruschi
Vulci, situata a pochi chilometri dalla costa tirrenica in provincia di Viterbo, nacque come insediamento intorno al X-IX secolo, come testimoniano le tombe a pozzetto più antiche. A poco a poco, con un crescendo che raggiunse l’apice nel periodo Orientalizzante (730-580 a.C.), subì intense trasformazioni economiche, sociali e urbane. L’esito fu il consolidamento di un forte ceto aristocratico, maggiore detentore di ricchezze e potere politico grazie al controllo delle risorse naturali e dei commerci. Fu proprio questa élite ad adottare progressivamente i riti e la cultura greca, con cui aveva abbondanti contatti. Ne conseguì l’aumento della domanda di prodotti raffinati, in parte soddisfatta dagli stessi artigiani greci immigrati in città in cerca di lavoro. Tutta questa evoluzione si evidenzia nel cambiamento dei corredi funebri, divenuti sempre più ricchi.
La fioritura economica e urbana vulcente proseguì nei secoli successivi, subendo un primo temporaneo cedimento con la sconfitta da parte dei Siracusani nel 474. L’epilogo della città è però il 280 a.C., quando fu conquistata dalle truppe consolari di Tiberio Coruncanio.
La mostra su Vulci alla Fondazione Rovati di Milano
Vulci. Produrre per gli uomini. Produrre per gli dei. Sei sezioni, curate da Giuseppe Sassatelli e Laura M. Michetti, che raccontano la metropoli etrusca mettendo in luce la sua produttività artistica e artigianale. La voce narrante è quella dei reperti ritrovati nei corredi funebri delle necropoli vulcenti: ceramiche, bronzi, e persino un rarissimo esemplare di mani d’argento. Lungo il percorso, una serie di opere di Giuseppe Penone – esponente dell’Arte Povera italiana – dialogano tra i secoli con i manufatti antichi.
Urne e simulacri di immortalità nelle tombe etrusche di Vulci
È proprio dalle Mani d’argento che comincia la narrazione espositiva. Si tratta di una delle poche coppie giunte alla luce, che testimoniano una pratica funeraria aristocratica molto particolare, acquisita in Etruria dal mondo greco. Consisteva nell’inserire all’interno della tomba a camera del defunto una statua polimaterica che lo riproduceva. Un vero simulacro di immortalità, che poteva essere fatto di legno, bronzo, osso, oppure d’argento. Le mani ritrovate sono quanto rimane – assieme al collarino osseo anch’esso esposto – della figura originale. L’idea alla base era di ridare corporeità alla persona cremata, laddove vigeva l’uso dell’incinerazione. Analoga funzione aveva anche l’urna stessa in cui erano conservate le ceneri del defunto. Spesso, infatti, questa assumeva connotati umani, che rievocavano il proprietario. I recipienti più arcaici e semplici si limitavano a una forma biconica, con coperchio a scodella rovesciata, talvolta con la sommità sviluppata “a palla”: era la testa. Dettagli ulteriori potevano essere le collane (per le donne), oppure gli elmi (per gli uomini guerrieri). In mostra ne sono raccolti vari esempi. Da notare il fatto che abbiano tutte una sola ansa: il che le rende inservibili, dato che non sarebbe possibile sollevarle per i manici! La ragione è ancora una volta rituale: l’ansa veniva spezzata durante il funerale, poiché nell’aldilà l’urna avrebbe assunto una nuova funzione, non più pratica ma di simulacro.
Artigiani locali e immigrati a Vulci
Un’altra sezione della mostra di rilievo riguarda le produzioni ceramiche dedicate al simposio. E dunque… alla tavola. Brocche, coppe, crateri, anfore: tutti recipienti funzionali a contenere vino, acqua, o cibo. Al di là dell’utilizzo concreto, questi manufatti sono capolavori di artigianato, realizzati tanto da maestri etruschi, quanto da immigrati greci. Sono per la maggior parte decorati con motivi e stili che rimandano direttamente al mondo ellenico. Gli artisti trasferitisi a Vulci, infatti, portarono i loro miti in città: su questi vasi si leggono le vicende omeriche e classiche. Al contempo, però, spuntano animali e motivi floreali di tradizione tutta etrusca. Testimonianza del modus operandi degli artigiani immigrati, che fondevano la propria cultura con i gusti dei committenti locali.
Tra i molti pezzi esposti, merita una menzione il Cratere a calice decorato con figure rosse su fondo bianco. Esemplare rarissimo, che raffigura da un lato tre ninfe musicanti, e dall’altro una scena del mito di Ercole. Eroe, quest’ultimo, molto apprezzato dalle élites etrusche, in quanto esempio di uomo che – partito da umili condizioni – divenne eroe di successo.
I bronzi trionfali e le offerte votive degli Etruschi a Vulci
Le sezioni rimanenti della mostra sono dedicate a raffinati oggetti di bronzo e offerte devozionali. Per quel che riguarda i primi, da segnalare è la Spada con fodero, ma soprattutto una visiera lavorata a mo’ di barba ricciuta. Un altro oggetto unico, che rimanda a qualche occasione celebrativa di trionfo.
Le sculture votive – teste di giovani e un neonato in fasce – sono accostate alla ricostruzione della facciata di un tempietto funebre. Se ne possono apprezzare le antefisse (piccole icone antropomorfe posizionate agli estremi del tetto) e una parte del frontone. Unici pezzi (non lignei) dei luoghi di culto etruschi che sono sopravvissuti. Brandelli di storia che – sommati a tutti gli altri – permettono di fare sempre più luce su questo popolo così misterioso, quanto affascinante.
Emma Sedini
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