Se un tempio dorico diventa un telaio. Il direttore del Parco sulle polemiche a Segesta
Spettacoli teatrali, concerti, dj set: templi e teatri del mondo classico, in Sicilia, sono luoghi di cultura e divertimento a tutto tondo. Tra successi e cantonate. E anche le arti visive continuano il dialogo con l’archeologia. Come nel caso del tempio di Segesta, modificato da una nuova installazione per molti poco convincente.
Si erge, integro e solenne, tra le vette del Monte Barbaro, il tempio dorico di Segesta, città elima ellenizzata, che affonda le radici nel mito. Un territorio archeologico – identificato anche dal magnifico teatro greco, dai resti di un’antica moschea e da quelli di una quattrocentesca cappella rurale – oggi governato dall’ente Parco che si occupa di tutela, fruizione, scavi, produzione di eventi, spettacoli, mostre. Tra queste ultime c’è “Texere”, progetto di installazioni e laboratori affidato dal direttore Luigi Biondo all’artista Silvia Scaringella e inaugurato lo scorso 24 luglio.
Bisognava ricostruire, anche con l’aiuto dell’arte, là dove il devastante incendio di un anno prima aveva lasciato cumuli di cenere e amarezza. Le fiamme si erano arrestate per miracolo dinanzi al tempio, protetto dalla sorte o da chissà quale invisibile cordata di divinità giunte in soccorso. Ricostruire, dunque, facendo comunità, coinvolgendo residenti, volontari, associazioni, scuole, gruppi religiosi. Tessere fili come relazioni, e viceversa. Un nobile proposito.
E però, a ibridare la materia convulsa del presente con quella cosa “sacra” che è l’antico, non è difficile bruciarsi. Esporsi al fallimento è tuttavia l’unica maniera per provare a produrre linfa nuova. Purché il rischio venga gestito, contenuto. La responsabilità verso il bene storico-artistico non può ignorare il sentimento del timore, il tormento della ricerca, l’intelligenza della cautela, l’abilità dell’ascolto. Se il presente è volatile e il passato granitico, il loro incastro ha l’ebbrezza di un’acrobazia.
L’installazione a Segesta. Cosa non ha funzionato
Delle tre opere che Scaringella ha ideato per il Parco di Segesta, una, la più ardimentosa, ha incontrato il disappunto di tanti. Sui social è protesta. Milleduecento metri di tessuti riciclati, recuperati e assemblati grazie alla collaborazione del Centro di Riuso del Comune di Calatafimi, poi annodati fra le colonne di uno dei lati lunghi del tempio: il risultato? Un gigantesco orpello decorativo che avvolge e snatura l’architettura, nel tentativo di affrontarne la potenza soverchiante. Al netto delle valide premesse, delle attività partecipate, dell’impegno profuso e dell’accurata costruzione del progetto, l’opera appare gratuita (nel senso che ne sfugge la profonda ragione) e goffa (cioè priva di grazia). È impattante da vicino e lo è a distanza, nell’interruzione chiassosa di quel dialogo religioso tra il santuario pagano ed il paesaggio. L’odierna, diabolica “instagrammabilità” vince ancora sulla logica della misura, dell’intimità.
Il tempio appare fasciato, addobbato per una festa etnica, costretto a infilarsi un abito che non gli dona, non gli appartiene. I materiali (la ruvida pietra e le stoffe variopinte) cozzano tra loro, mentre il chilometrico patchwork si arrotola maldestramente sull’architettura, interpretata come un immenso telaio e perciò trattata come supporto, oggetto funzionale fuori scala.
Arte contemporanea nel tempio
Si tratta di un segno altro, che altera: cosa di per sé interessante. La contemplazione pura non è un dogma, l’antico non è inviolabile tabù. Il tempio vive nel presente, e benché reclami quiete e silenzio, nella sua luce perfetta, nulla esclude che il gesto di rottura possa avere luogo. Quando un senso c’è. E quando si è in grado di intravedere quella misteriosa via, grazie a cui le distanze temporali e linguistiche si accorciano, fino a generare una qualche forma di armonia, di vertigine estetica, letteraria. Un pensiero alto del tradimento. Difficile, non impossibile. Necessario? Forse no, ma provarci è legittima tensione intellettuale, è libertà di mettersi in gioco, è continuare a essere contemporanei lungo la linea ininterrotta della storia. Anche riannodando i fili di un passato che non è mai passato davvero.
L’intervista al Direttore del Parco di Segesta
Chi le parla è un’appassionata sostenitrice del dialogo tra antico e contemporaneo. Quindi nessun preconcetto, anzi. L’installazione di Silvia Scaringella pensata per il Tempio di Segesta mi ha però investita frontalmente, e non certo per un eccesso di forza poetica. Non l’ho proprio capita, da qualunque angolazione io l’abbia osservata. La prima cosa che le chiedo è: perché? Come le è venuto in mente di cambiare i connotati di un tale monumento (perché di questo si tratta: l’intervento è molto impattante ed esteso) per un periodo così lungo?
Finalmente un confronto che non può e non deve essere uno scontro preconcetto di due guerrieri ciechi che debbono abbattere il nemico senza un vero motivo. Confesso che lo speravo. Il percorso ha avuto inizio dalla voglia di pensare il Parco come luogo di incontro delle culture e dei culti, luogo di pace fra i popoli. Un incontro quasi casuale con una piccola comunità islamica presso i resti della moschea del Venerdì, vicina al Teatro antico, è stata la scintilla che ha dato fuoco alle polveri. Quel gruppo era composto da cittadini di molti paesi esteri ed erano venuti a pregare dentro quello che per loro era ancora un recinto sacro. Avevano portato con loro i tappeti rituali per inginocchiarsi ed allora abbiamo pensato ad una trama e un ordito che accomunasse il sentire comune di quella religione, della cristianità espressa dalla chiesetta mediale di San Leone e dei culti antichi incarnati dal tempio.
Da qui l’idea del tempio, con le sue colonne, reinventato come telaio.
Esattamente. Avevamo bisogno di un grande telaio dove “tessere” quelle trame. Avevo proposto in un primo momento gli spazi fra gli edifici sacri dell’acropoli nord, poi l’intuizione di Silvia Scaringella ci ha portato ad osare di più. Certo nelle nostre intenzioni non c’era nessuna voglia di dissacrare l’antico monumento ma di interpretarlo in chiave critica e contemporanea. Non credo che l’opera dell’artista sia impattante, tantomeno che cambi i connotati. Il tempio resta protagonista e vince il confronto, facendo emergere le sue mirabolanti stereotomie.
La trova davvero un’immagine così calzante e potente da poter modificare un’architettura sacra millenaria?
La grande sequenza di quadrati colorati, figure geometriche fortemente simboliche e legate al culto della terra, costruisce, con oltre un chilometro di stoffa, dei ritmi che si ispirano ai manufatti dorici del V e IV Secolo avanti Cristo. Una sapienza antica interpretata in chiave contemporanea. Torno a ripetere che la tessitura, limitata a un solo lato del monumento, non ha alcuna intenzione di mortificarlo o annullarlo. Non si tratta in ogni caso di un intervento massiccio, come quelli, straordinari, praticati negli Anni ’70/’80 da Christo.
Ecco, Christo e Jeanne-Claude sono stati tra i pochi al mondo che hanno potuto trasformare luoghi e monumenti iconici, con ricadute importanti sul piano estetico e concettuale. Il riverbero dell’Enigma di Isidore Ducasse si fece, nel loro progetto, nuova e dirompente proposta avanguardista. Il nascondimento era una forma di riscrittura storica e geografica, fra ironia, utopia, tragedia, con assoluta coerenza visiva e visionaria. E qui è il punto. Accanto e oltre le premesse teoriche, un’opera d’arte necessita di un processo di formalizzazione adeguato, di una sintesi plastica e simbolica efficace. Che qui proprio non vedo. Per tanti siamo davanti a un flop. Che cosa non ha funzionato?
Dissento da questa valutazione. Il risultato non è e non credo sarà un flop, perché ha avuto numerosi riscontri positivi e ci permetterà inoltre di creare un’economia di scala e di indotto utile a riparare i danni dello spaventoso incendio che ha colpito il Parco lo scorso anno. Grazie alla collaborazione con Mondo Mostre tutta l’operazione non avrà alcun costo a carico del Parco e ci permetterà di avere degli introiti straordinari che renderanno sostenibile tutto il progetto. Infine, a proposito di grecità, richiamando il concetto di epochè – la sospensione del giudizio avocata quando non risultavano disponibili sufficienti elementi per formulare un qualsivoglia giudizio – non vorrei si scadesse nel grande equivoco dell’oggettività della bellezza e del valore dell’arte.
La vicenda di Merz e Varotsos a Segesta
Siamo d’accordo, quello del contemporaneo è spazio vivo di dibattito, scontro, incertezza. E mentre il filtro della storia lavora, l’esercizio critico deve avere spazio. Non parliamo dunque di ‘giudizio’ e di ‘oggettività’, però gli strumenti di valutazione esistono. Come esistono i percorsi professionali, la conoscenza, il buon senso. Altrimenti vale tutto. Ad esempio, dinanzi a una sfida simile a chiunque tremerebbero i polsi. Non ha pensato che occorresse un nome importante, magari con un peso internazionale? Il che non è garanzia di successo, ma si procede con maggiore sicurezza.
Avevamo già sperimentato nel 2022 un percorso espositivo con le opere di Mario Merz, Ignazio Mortellaro e Costas Varotsos. Artisti certamente più conosciuti e più strutturati ma attaccati e denigrati da Vittorio Sgarbi e da altri critici. I numeri a neon rossi della frequenza di Fibonacci, applicati in cima alle colonne del tempio, erano apparsi fuori luogo e dissacratori del monumento.
Quella fu una vicenda costruita e usata per ragioni politiche, fra scontri ai vertici dell’amministrazione. Un caso che non esisteva. Venne persino diffusa una foto della scultura di Varotsos scattata con un grandangolo, per farla sembrare un enorme oggetto addossato al tempio, cosa non vera. Quanto a Merz, parliamo di un grande maestro: la collocazione dell’opera sul tempio, frutto di scelte curatoriali, poteva essere discussa, ma era misurata e aggiungerei concettualmente intrigante. Insisto, Scaringella è un’artista giovane, con insufficiente esperienza per poter abbracciare un progetto talmente ambizioso. Il suo mi pare inoltre, in generale, un lavoro dignitoso, ma non così significativo.
Anche in questo caso dissento da queste affermazioni. Non cercavamo una star per giustificare il valore della nostra operazione. Abbiamo scelto la sensibilità di Silvia, la sua padronanza di tecniche varie oltre alla sua estrema umiltà nel rapportarsi con temi e luoghi forti.
All’origine di questa “vestizione” decorativa del tempio c’è una apprezzabile e complessa operazione sociale/relazionale. Su cosa avete lavorato, chi avete coinvolto e perché?
La trama di stoffa sull’ordito delle possenti colonne non è un vestitino della festa né un apparato effimero estetico. La tessitura del tempio, l’istallazione “Pondus” presso il nostro antiquarium ed “Idrissa”, il ponte di corde che unisce moschea e chiesetta, sono stati realizzati coinvolgendo le comunità locali. Un’operazione durata mesi, che ha coinvolto il centro di raccolta e riciclo dei tessuti del Comune di Calatafimi Segesta, tutte le scuole del territorio, i centri sociali, la Pro Loco e varie associazioni. Silvia Scaringella ha seguito decine di incontri e di laboratori didattici rivolti a giovani e anziani, che hanno accolto di buon grado l’occasione di essere primi attori di un’operazione innanzitutto etica e sociale. Le tappe di avvicinamento e l’inaugurazione sono state vissute come vere feste e momenti di aggregazione rivolte alla riscoperta dell’identità di un territorio che in passato era conosciuto per la qualità delle lavorazioni tessili.
Il progetto porta la sua firma come curatore. Di formazione architetto, con anni di rispettabile e profonda esperienza tra le maglie dell’amministrazione regionale e del sistema dei beni culturali, ha guidato musei (incluso il Riso) e soprintendenze, ma non è però nello specifico un curatore o un critico/teorico d’arte contemporanea. Non sarebbe stato meglio rivolgersi a degli esperti? A sua stessa tutela, in quanto dirigente con alte responsabilità.
Considero la domanda velatamente offensiva perché parte dall’evidente poca conoscenza della mia formazione. Non mi piace snocciolare il mio curriculum ma tengo a precisare che il mio ultradecennale percorso non è stato quello di un burocrate ma di uno studioso di storia dell’arte antica e contemporanea, di teoria e pratica del restauro e soprattutto di composizione architettonica. La mia lunga carriera ha visto l’applicazione pratica di questa formazione con la cura di mostre in Italia e all’estero, con allestimenti di musei, con il restauro di monumenti ed opere di altissimo rilievo artistico e monumentale, con la scrittura di saggi e l’insegnamento presso corsi universitari e master. Non voglio peccare di superbia ma credo fortemente che il vero allestitore deve essere in primis un progettista capace di comporre spazi e leggere gli elementi da valorizzare in un percorso di visita critico e ragionato. La lettura dei luoghi ed il rapporto armonico con gli elementi da esporre devono essere sempre gli strumenti per una buona riuscita.
La Soprintendenza come si è posta dinanzi alla proposta progettuale? Ha sollevato dubbi?
Il progetto è stato approvato all’unanimità dal Comitato tecnico e scientifico del Parco composto dalla Soprintendente dei BB.CC.AA di Trapani, dal Sindaco di Calatafimi Segesta, dall’archeologo emerito Carmine Ampolo, dall’antropologo Manlio Corselli e dal prof. Gioacchino Fazio economista. È stato illustrato all’Assessore regionale dei BB.CC ed I.S e al Dirigente Generale del Dipartimento dei BB.CC ed I.S. È stato inoltre presentato in apposite conferenze alla comunità locale e presso il Parco Archeologico di Agrigento in occasione dell’evento l’Isola dei Tesori. Nessun dubbio è stato sollevato perché al centro dell’operazione c’era l’assoluta sicurezza e la tutela del monumento. Le strisce di stoffa hanno un’anima impermeabile che impedisce che possano essere rilasciati colori o aloni, non stringono le colonne e non hanno alcun pericoloso attrito, hanno utilizzato materiali di fibra naturale e sono state fissate con stringhe inorganiche.
Parchi e musei in Sicilia. Un sistema da migliorare
A proposito di professionalità, pensionamento dopo pensionamento la Regione si sta svuotando: diminuiscono funzionari, tecnici, fino a voi dirigenti, chiamati a guidare parchi archeologici e musei, spesso senza avere competenze scientifiche adeguate (lei stesso, come i vari direttori dei parchi archeologici, non è archeologo). Di archeologi, antropologi, storici dell’arte, non ce ne sono quasi più. Di contro, la sola competenza scientifica non garantisce la buona gestione di un sito, laddove occorrono figure manageriali capaci di muoversi tra previsioni di bilancio, meccanismi amministrativi, norme di sicurezza, appalti, etc. Come se ne esce?
Argomenti delicati che hanno dimensioni vicine al punto di non ritorno. Seguo un sogno da tempo: passare il testimone ad una generazione di giovani dipendenti. Nel 1989 ero uno dei tanti giovani che cercava di apprendere un mestiere seguendo l’esperienza di colleghi più anziani ed esperti. Adesso vorrei essere io a trasmettere le mie conoscenze e la mia passione per un lavoro straordinario ma che richiede gli straordinari…
Non pensa che i meccanismi di reclutamento dei direttori debbano cambiare, pescando all’esterno dell’amministrazione tramite procedure di concorso nazionali o internazionali? Una riforma che nessuno sembra desiderare…
Una strana ed inspiegabile tendenza nazionale sembra disconoscere la necessità di un ricambio generazionale nella Pubblica Amministrazione. Per anni abbiamo temuto che tutto questo accadesse per implementare un ricorso a collaborazioni esterne, consulenze, società interinali. Si è quasi annullato così lo spirito della Res Pubblica e del servizio ai cittadini. Sono fermamente convinto che la continuità di impegno e le esperienze da maturare sul campo siano elementi indispensabili per far crescere una nuova classe dirigente che non può essere composta da precari.
I musei regionali lamentano un organico inadeguato: non hanno squadre di curatori, addetti stampa, esperti di didattica, comunicazione, conservazione. E i custodi non bastano spesso a garantire l’apertura dei siti. Lei com’è messo da questo punto di vista? Avete risorse per reclutare consulenti e collaboratori? I musei, che non possiedono l’autonomia finanziaria (altra grave anomalia), non possono farlo. Ma i parchi, trasformati in enti autonomi con la riforma Tusa, in teoria sì.
Le forze in campo a disposizione del Parco Archeologico di Segesta sono ridotte al lumicino. Siamo prive di figure tecniche, amministrative e specialistiche. Il sacrificio costante e continuo dei custodi consente ancora di garantire l’apertura, la vigilanza e la tutela di aree sterminate e morfologicamente complesse. La riforma voluta da Sebastiano Tusa e da altri attori con la L. R. 20 del 2000 ha alleggerito la mole di problemi e ci consente di attingere a consulenze e collaborazioni scientifiche con professionisti esterni ed istituti universitari, ma non ci permette di avere una continuità quotidiana nella ricerca e nello studio.
Veniamo alle attività del Parco. I numeri – biglietti e visitatori – servono, perché serve il denaro da reinvestire nella manutenzione, nella tutela, nei servizi e in nuove attività culturali. Ma mai a discapito della qualità. Sul piano dei contenuti scientifici e delle progettualità, come avete lavorato e che obiettivi avete?
I numeri servono sempre ma non devono trasformarci in freddi ragionieri. Il bilancio del Parco è passato da circa 1.300.000,00 di euro nel 2022 a 2.200.000,00 nel 2023 producendo un utile netto di 414.000. La prima metà del 2024 ci riporta dati estremamente positivi ed in crescita. È nostra intenzione investire gli utili in nuovi scavi, infrastrutture e servizi. Abbiamo puntato già da tempo alla riscoperta dell’urbanistica della città antica ed i primi saggi ci hanno restituito ritrovamenti straordinari. Abbiamo vinto un corposo bando PNRR che ci consentirà di rendere l’area del tempio raggiungibile a tutti i disabili. I non udenti, i non vedenti e coloro che soffrono di menomazioni motorie potranno essere aiutati da app multimediali dedicate, avranno vie di accesso più agevoli e sicure. Abbiamo già in fase di avanzata definizione i progetti e le opere per aree di sosta per i veicoli, per i nuovi servizi igienici e per un bookshop con punto di ristoro. Intendiamo valorizzare anche i siti minori affidati alla nostra cura grazie a visite guidate e percorsi di trekking. Stiamo da tempo lavorando con il territorio dedicando eventi alle famiglie e ai produttori di eccellenze enogastronomiche.
Tornando all’installazione di Scaringella, le critiche piovono da parte del pubblico generico ma anche da quello di settore, incluse tante personalità competenti. Come la vive? È tutto negativo o ne è comunque valsa la pena?
La pratica dei “leoni da tastiera dei social”, spesso anonimi e di formazione culturale incerta, ha una diffusione considerevole e spesso dispensa commenti superficiali, approssimativi o addirittura offensivi. Sarebbe facile ignorare tutto ed attendere che i florilegi finiscano ma io vivo questo momento con uno stato di serenità e gratitudine. Ho la consapevolezza di aver mosso le acque stagnanti del dibattito culturale. Credo sia meglio esprimere commenti negativi sull’istallazione “Texere” che parlare solo di calcio e di veline.
Questo è sacrosanto. Un anno non però non è troppo per un intervento così radicale e largamente contestato? Sta considerando di smontare l’installazione prima?
“Texere” non è solo un’istallazione o una mostra, ma è un percorso che avrà incontri con artisti, studiosi, laboratori didattici. Un’esperienza in continuo divenire. Seguire questo cammino privandoci dell’”oggetto del contendere” sarebbe sbagliato ed abbiamo bisogno dei tempi giusti per sedimentare questa esperienza. Un anno è troppo poco.
In chiusura, dopo questo bailamme, che fa? Lascia o persevera? Basta con il binomio arte contemporanea-archeologia, o si va avanti, magari con qualche accorgimento e riflessione in più?
Si va avanti con la consapevolezza, l’onestà ed il coraggio delle nostre scelte. Siamo sicuri di non raccogliere il plauso e gli apprezzamenti di tutti ma con la voglia di dare spazio a suggerimenti, riflessioni, confronti e la possibilità di condividere un cammino impervio ed ancora poco praticato in Sicilia: quello rivolto all’arte contemporanea e all’innovazione nel solco della tradizione.
Helga Marsala
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