Palermo e l’antica arte della tessitura. Gli arazzi del barocco siciliano in mostra

Un viaggio nella magia dell’antica arte tessile, tra sete, fili d’oro e argento, coralli, tessuti preziosi. E poi il mito greco, la fede cristiana, gli ornamenti dell’aristocrazia e i paramenti sacri. A Palermo a Villa Zito una mostra con capolavori del barocco siciliano

In principio fu la tracotanza di Aracne, che sfidò Atena nell’arte del ricamo e di lei subì la furia: trasformata in ragno per punizione, condannata a filare per sempre aniconiche e fragili tele a cui restare aggrappata, la fanciulla aveva osato ostentare il suo talento, con un grandioso manufatto che era un testo d’accusa conto l’abuso virile e la prepotenza degli dei. E poi furono la fedeltà e l’astuzia di Penelope, nell’esercizio paziente dell’attesa, l’artificio di Circe, tessitrice di malie e di seduzioni, o ancora lo sguardo profetico di Elena, che sulla sua tela purpurea ricamò lo scontro feroce fra gli achei e i troiani, esploso per sua stessa cagione. Un’arte tutta al femminile, quella della tessitura, che nel mito classico torna di frequente, assumendo diverse cifre simboliche, mentre Ovidio nelle sue Metamorfosi dava eterna dignità alla storia di Aracne, introducendo tra le righe un tema destinato a una lunga fortuna: la metafora della ricamatrice come artista/poeta, pronta a difendere la sua indipendenza d’autrice dinanzi al potere che schiaccia e controlla. E il ricamo come libera scrittura, la forza creatrice del linguaggio come pratica lenta, incisiva, consapevole.

andrea bolognese ricamatore su disegno di gerardo astorino pittore e architetto parato murale di donna giovanna flavia branciforti e lanza 1627 29 tela di lino ricamata palermo collezione privata Palermo e l’antica arte della tessitura. Gli arazzi del barocco siciliano in mostra
Andrea Bolognese (ricamatore) su disegno di Gerardo Astorino (pittore e architetto), Parato murale di Donna Giovanna Flavia Branciforti e Lanza, 1627-29, tela di lino ricamata. Palermo, collezione privata


Gli arazzi di Palermo e la storia del ricamo

E non è forse un caso se alcune scene tratte dalle Metamorfosi, incluso un momento dello scontro tra Aracne e la Dea, si ritrovano sui due principali arazzi esposti a Palermo, nella bella mostra in corso a Villa Zito, EXEMPLA MORALIA. “Arazzi” siciliani ricamati del XVII Secolo, a cura di Maurizio Vitella, con la supervisione della prof.ssa Maria Concetta Di Natale, neo presidente della Fondazione Sicilia.
Un mito, quello di Aracne, in origine non molto popolare. Poco rappresentato su fregi, vasi e sculture ad oggi rinvenuti (importante l’attribuzione di una scena sulla trabeazione del Foro di Nerva edificato da Domiziano, mentre la più antica iconografia si trova su un vaso del VII sec., un “ariballo” del Museo archeologico di Corinto); assente nelle fonti letterarie greche (se si esclude la versione ellenistica di Nicandro) e prima di Ovidio, nella letteratura latina del I sec. a.C., accennato solo nelle Georgiche di Virgilio: l’ombra negativa che connotò la figura della giovane tessitrice della Lidia, antieroina trasgressiva e irrispettosa dell’autorità, ne determinò forse il debole successo in epoca augustea, non prestandosi alla narrazione ufficiale, tesa alla moralizzazione dei costumi.

le metamorfosi di ovidio ridotte da gio andrea dellanguillara in ottava roma 1584 palermo soprintendenzs archivistica della sicilia archivio di stato Palermo e l’antica arte della tessitura. Gli arazzi del barocco siciliano in mostra



Tra l’antichità tarda e il medioevo il racconto iniziò a diffondersi e a colonizzare l’immaginario collettivo, mentre l’arte del filare, le cui radici si perdono in un buio primordiale (si hanno testimonianze di telai “a pesi” già in epoca neolitica) trovava in Occidente una nuova fioritura, uscendo via via dalla dimensione domestica e proiettandosi verso una produzione su larga scala. Proprio in Sicilia, intorno all’anno mille, i saraceni importarono i loro laboratori di tessitura e ricamo (dalle parole arabe “thiaz” e “raqm”): fu un exploit straordinario, che generò sull’isola importanti centri di produzione tessile, diffondendosi presto in tutta Italia e in Europa. Tra il XVI e il XVII Secolo, periodo che interessa la mostra palermitana, la figura di Aracne era già un’icona, al pari di quelle di Medusa e Narciso: le Filatrici di Valesquez e Pallade e Aracne di Rubens sono due tra i maggiori capolavori pittorici dedicati al complesso mito ellenico e alle simbologie di questa pratica artigianale, giunta intanto a livelli altissimi di finezza tecnica e ricchezza compositiva: i manufatti in oro, argento, lino, seta – lussuosi elementi d’arredo per l’aristocrazia, strumenti di edificazione religiosa per la Chiesa – declinavano motivi ornamentali, scene bucoliche, immagini vegetali o zoomorfe, spunti mitologici, temi sacri e morali. 

Due capolavori esposti a Palermo

I due parati murali, che all’inizio del percorso espositivo a Villa Zito accolgono i visitatori come presenze d’eccezione, erano esposti fino al secolo scorso nei saloni di palazzo Mazzarino, poi, nel 1964, vennero acquistati a un’asta da privati. Esempi della grande maestria siciliana, furono eseguiti tra il 1627 e il 1629; a realizzarli il ricamatore Andrea Bolognese, invitato a trasporre su tessuto le immagini dipinte dal pittore-architetto Gerardo Astorino dietro incarico della nobildonna Giovanna Flavia Branciforti e Lanza. Astorino, a sua volta, si ispirò all’importante produzione del pittore e incisore fiorentino Antonio Tempesta, che nel 1606 aveva inciso su grandi lastre di rame 150 scene tratte dal poema ovidiano, stampate poi dall’editore olandese Wilhelmus Janssonius.
Composti da 7 fasce, ognuna impreziosita da filati policromi e metallici, entrambi i “cortinaggi” ricamati, volgarmente definiti “arazzi”, riportano gli stessi decori: dal basso verso l’atto si distinguono un elefante, due figure erculee, un bouquet di tulipani dentro a un vaso con mascherone, una scena con figure mitologiche, due centauri e infine un pellicano che si lacera il petto, simbolo cristiano di pietà, amore e carità. Le fasce che citano le Metamorfosi di Ovidio – volume esposto qui in un’edizione del 1584, proveniente dall’Archivio di Stato di Palermo – nel primo arazzo illustrano frammenti dalle storie di Aiace, Pan e Siringa, Fetonte, Europa, Salamace e Ermafrodito, e naturalmente Aracne e Pallade Atena nella loro epica contesa al telaio. Unica eccezione la vicenda di Eracle e Onfale, che Ovidio narra invece nei suoi “Fasti”.

Il secondo arazzo, al centro di una sala attigua, identico all’altro nella costruzione delle fasce ornamentali, riporta invece episodi dalle vite di Piramo e Tisbe, Narciso, Diana e Atteone, Bacco e i marinai di Acete, Cadmo e Armonia, Ganimede, Icaro. Anche qui un’eccezione: l’iconografia di riferimento, per la scena in cui Cadmo, fondatore di Tebe, viene trasformato in serpente insieme alla sposa Armonia, figlia di Afrodite e Hermes, non è ispirata a un’incisione di Tempesta, ma a quella de tedesco Virgil Solis contenuta nell’edizione delle Metamorfosi del 1563, pubblicata a Francoforte da Johann Spreng.
A mancare è un terzo arazzo, custodito a Palazzo dei Normanni e inamovibile per ragioni tecniche e di sicurezza: insieme agli altri due era parte di un unico, grande parato murario, oggi smembrato.

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Nicola Poussin (cerchia), Narciso, 1640-50 ca. Villa Zito, Palermo. Collezioni Sicily Art and Culture – Fondazione Sicilia

Arazzi, ricami e dipinti in dialogo

Punti di luce ulteriori, nelle stesse tinte auree e argentee di queste due capolavori, sono le piccole opere a parete della fondazione Witaker, giunte dalla palermitana Villa Malfitano. Sono ricami incollati su carta, genericamente riferibili ad artigiani meridionali di fine ‘500 / primi del ‘600: vi si riconosce l’atto cruciale in cui Apollo trasforma Dafne in un albero di alloro e quello in cui Licaone prende le fattezze di lupo per volontà di Zeus, ancora celebrando il tema delle metamorfosi miracolose di matrice mitologica. Il dialogo tra le immagini si articola ancora, nel segno di riferimenti letterari e suggestioni grafiche o pittoriche, con l’imponente Ercole e Iole (1620-28 ca.) di Palma Il Giovane e con una versione agreste del mito di Narciso (1640-50 ca.), attribuita alla cerchia di Nicolas Poussin, due preziose tele dalle collezioni della Fondazione Sicilia.
Così, in questo intreccio di memorie, citazioni e rifacimenti, la scansione regolare dei decori, la minuzia dei dettagli e la preziosità dei filati restituiscono il vigore drammatico di storie senza tempo e la forza di figure allegoriche, la cui interpretazione si esplicava allora in chiave morale e religiosa: la tracotanza, l’eccesso di ego o l’ambizione, quindi la punizione divina, la trasformazione in creature animali o vegetali come percorso di redenzione e di purificazione, le gesta eroiche nel nome della giustizia e della verità, il dissidio tra colpa e virtù, il senso della perseveranza e dell’obbedienza, l’amore come dono di sé e unione indissolubile che sfida la morte.

Tessuti, sete e coralli a Villa Zito

Il percorso prosegue con altri esemplari di collezioni locali, come il cortinaggio color vermiglio, composto da tre drappi verticali e intessuto da un ricamatore fiammingo attivo in Sicilia alla fine del XV Secolo, tra le tante testimonianze del clima internazionale che si respirava sull’isola: la trama di foglie, fiori e rami, che su ogni fascia si dirama a partire da un arbusto incantato, incornicia al centro piccole nicchie architettoniche, dove sono illustrate scene della vita di Davide, Re d’Israele. Tutta l’armonia musicale, la dolcezza e lo slancio spirituale di un salmo, sembrano rivivere in questa partitura serica, che celebra la storia del popolo ebraico e la bellezza del creato.
Una sala è poi dedicata ad arazzi in cui protagonista è quel corallo rinvenuto tra i mari di Sciacca e Trapani, utilizzato in manufatti di uso religioso o laico: gioielli, abiti, suppellettili, capezzali, oggetti e paramenti sacri. Così si ammirano fasce ornamentali con ricami di perline, che delimitano un paesaggio o una trama di eleganti motivi floreali, da disegni di Vincenzo La Barbera, entrambe opere di fattura siciliana del VII sec. ed entrambe provenienti dal Museo civico di Termini Imerese (come il grande canovaccio policromo in fili di seta, da un disegno di La Barbera, che illustra il momento in cui Coriolano respinge la richiesta di pace).
Ma l’incanto assoluto è nel paliotto del 1690, proveniente dalla Cattedrale di Palermo, tra i manufatti tessili siciliani più celebri: un tripudio di infiorescenze rampicanti, che dal fiocco centrale à la “Sévigné”, in basso, si diramano in più direzioni, con fregi, volute, foglie d’acanto, petali di gigli, rose, peonie, nel rosso-arancio del corallo che si innerva, come fiamma opaca, sulla superficie luminosa della seta grigia, mentre l’effetto di rilievo dell’ornato, ottenuto grazie a una leggera imbottitura, offre ulteriore tridimensionalità. Un tesoro da cui emana lo spirito del Barocco siciliano.

I paliotti ricamati di Monreale

Scorrendo simboli e narrazioni, bagliori metallici e tavolozze cromatiche, si dipana come una trama questa mostra dalle dimensioni abbastanza contenute, ma con un focus preciso e una selezione rigorosa, che trova piena soddisfazione nell’allestimento cadenzato, leggero, con le giuste pause e i giusti rimandi, con un chiaro intreccio dei temi e gli ottimi testi degli apparati didattici.
Nell’ultima sala si ammirano quattro raffinatissimi paliotti del museo diocesano di Monreale, realizzati nei primi decenni del ‘700. Vere e proprie finestre su universi fiabeschi, questi tessuti che adornavano gli altari delle chiese erano strumenti di grande seduzione: suscitare il senso della meraviglia era una maniera per provocare sussulti di devozione nei fedeli, puntando più che sulla ragione e sulla comprensione dei testi, sulla potenza della comunicazione non verbale, destinata agli occhi e al cuore. Siamo in piena Controriforma e questa è la risposta all’iconoclastia protestante, che nella parola cercava un alleato nuovo, oltre l’idolatria dell’immagine, e che nella lettura identificava uno strumento d’affrancamento necessario. Esplodevano così di accecante bellezza le chiese cattoliche, mentre gli eretici venivano zittiti, perseguitati, messi al rogo. E la maestria di artisti e artigiani restava irrinunciabile occasione di prestigio e di potere.
I paliotti monrealesi brillano nelle loro tinte pastello, così vivide, tra i celesti radiosi, i gialli saturi, i verdi smeraldo, raffigurando paesaggi, palmizi, brani d’architetture, campi di fiori, mentre un sole incastonato tra la vegetazione rischiara l’Agnello mistico che appare tra nuvole e raggi d’oro. A realizzarli furono le giovani ospiti del Collegio di Maria, un locale istituto filantropico fondato nel 1724 dal prelato Alberto Greco Carlino: istruite nell’arte del ricamo e del cucito, le ragazze imparavano a produrre oggetti di pregio, in questo caso destinati all’attigua Chiesa della Trinità.

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Manifattura del Collegio di Maria di Monreale, post 1724. Paliotto (dettaglio), lino ricamato. Museo Diocesano di Monreale

Le donne, il ricamo e la clausura religiosa

Un’attività in origine femminile, quella del ricamo, come dicevamo in principio riferendoci al mito classico (un’interessante eccezione la lasciò Platone, che nel suo Politico fece dell’arte tessile una metafora dell’arte del governare, allora unicamente maschile). Nei secoli, se solo ai professionisti ricamatori, attivi tra botteghe e corporazioni, spettavano onore e guadagni, le donne si esprimevano unicamente tra le mura domestiche. E poi c’erano le monache, che nella privazione del convento trovavano la libertà di dipingere, ricamare, leggere e scrivere, lontane dal giogo di una società che le voleva mogli e madri, senza obiettivi, talento, cultura, mestiere.
E viene in mente, in chiusura di questo viaggio, quella figura da romanzo che fu Donna Elena Cassandra Tarabotti, nota come suor Arcangela, benestante di famiglia, zoppa dalla nascita, finita nel monastero di Sant’Anna in Castello, a Venezia, nel 1617, quando aveva solo 13 anni: molti chilometri più su rispetto alle giovani ricamatrici di Monreale o alle religiose dei conventi di Sicilia, ma vissuta in quegli stessi anni segnati dalla Controriforma e dal trionfo del Barocco. Suor Arcangela incarnò un’idea di donna a suo modo resiliente, volitiva, non piegatasi all’azzeramento dell’io e della coscienza, che per molte era un destino normale.
Considerata una protofemminista, per i suoi libri coraggiosi in cui s’incontravano spiritualità e osservazione critica della condizione femminile, tra la potenza della fede e quella del linguaggio, fu anche abile ricamatrice. Scriveva, filava, cuciva, tesseva immagini come parole e viceversa, contestando il sistema: proprio nel solco di quel senso che già Ovidio, nel mito di Aracne, aveva intravisto e lasciato in eredità. E così ricamare era per lei “trafiggere con le punture di un ago l’otio per ucciderlo e colorarlo col turchino del celeste amore, il porporino degli affetti ardenti, il verde della speranza, il bianco della pura intenzione, l’oro della fede immacolata”. Scrittura come pittura, che è come il lavoro della trama e dell’ordito, e che in sostanza è concentrarsi, meditare, dedicarsi, non smettere di fare, credere, creare. Dalla preghiera all’esercizio del pensiero, spalancando le porte dell’immaginazione. E così partorire mondi, in punta di dita, tra l’ago e la penna, cercando sé stessa e Dio in una trama minuta di lettere, luce, colore.

Helga Marsala

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Helga Marsala

Helga Marsala

Helga Marsala è critica d’arte, editorialista culturale e curatrice. Ha insegnato all’Accademia di Belle Arti di Palermo e di Roma (dove è stata anche responsabile dell’ufficio comunicazione). Collaboratrice da vent’anni anni di testate nazionali di settore, ha lavorato a lungo,…

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