Identità di genere e i suoi transiti. Note su un convegno bolognese
Il 20 febbraio si è tenuta all’Università di Bologna una giornata di discussioni intorno al tema del corpo e dell’identità dal titolo “Il corpo che abito”. Il tavolo era diretto da Mona Lisa Tina, performer, e da Stefano Ferrari, direttore della scuola di specializzazione in beni storici artistici all’Università di Bologna e presidente dello IAAP – International Association for Art and Psychology). Qui trovate un report della giornata.
Il programma del convegno Il corpo che abito prevedeva, tra gli altri, gli interventi di Peter Weiermair, critico d’arte ed ex direttore della GAM di Bologna (2001-2005), Daniele Del Pozzo, direttore artistico del festival Gender Bender, ed Eugenio Viola, curator at large al Museo Madre di Napoli.
Nel pomeriggio, però, un gruppo di attivisti per i diritti di genere ha fatto irruzione: accusando l’organizzazione del convegno di aver tolto la possibilità del dibattito e di non aver dato loro la possibilità di confronto, ha affisso un annuncio con il quale rivendicava la presenza dei corpi veri, e non di scelte borghesi. È subito intervenuta Milena Bargiacchi, rappresentante del MIT – Movimento Identità Transessuale anticipando il suo intervento, per dimostrare che alcune problematiche reali sarebbero state discusse, ed è stato tutto rimandato al dibattito della sera. Tuttavia, durante il suo intervento, Bargiacchi ha dedicato molto attenzione agli episodi storici che hanno contraddistinto la storia della transessualità, senza entrare nello specifico delle difficoltà di chi deve, continuamente, riaffermare e lottare per la propria identità. A questo proposito ha solo ricordato come, in Italia, la legge che disciplina queste situazioni risalga al 1982 e preveda il cambio di sesso solo dopo la sterilizzazione del soggetto; questo comporta che, alla presentazione dei documenti, ci siano disguidi e domande invasive che molti non sono in grado di sostenere.
Finalmente, il momento del confronto è arrivato: l’attivista sosteneva che ognuno deve poter fare ciò che desidera del proprio corpo, mentre se si vogliono assumere ormoni è necessario seguire e subire una lunga procedura medica e una terapia psichica. In linea di principio, potremmo essere tutti d’accordo contro la manipolazione biopolitica del corpo, se non fosse che non è mai tutto così chiaro e semplice. La responsabile del consultorio del MIT ha infatti spiegato come sia necessario che cure ormonali di un certo tipo siano seguite da persone competenti, non per una questione di mero controllo istituzionale, piuttosto come situazione da monitorare sotto un profilo medico/psichico.
Quello che è emerso in questo confronto è che le persone che decidono di intraprendere un percorso F to M o M to F hanno ben chiaro cosa sia la propria identità e sono pronte ad affrontare situazioni difficili, mentre per identità più liquide e fluttuanti, così come per disforie di genere, è molto difficile esprimere le proprie necessità in una società che, anche per praticità, tende a voler definire qualsiasi cosa. Un esempio? Andare alla toilette dopo discussioni di questo tipo e trovarsi di fronte ai simboli Uomo/Donna dimostra quanto le sfumature che caratterizzano l’esistenza, le gradazioni identitarie che ci contraddistinguono, difficilmente potranno essere tutte adeguatamente rappresentate da un sistema giuridico, politico e stereotipato come quello sociale in cui viviamo. Il Corriere della Sera del 24 febbraio dedicava due intere pagine a questo tema, evidenziandone l’emergenza: 50mila italiani soffrono a causa di disforie di genere, e come spesso succede, il sistema non è in grado di gestire l’esistenza reale delle persone.
In tutto questo l’arte può avere un forte impatto e un ruolo importante nell’esprimere esigenze intellettuali ed esistenziali che non troverebbero sfogo in nessun altro ambito. La giornata bolognese lo dimostra: l’arte diventa spesso il pretesto per parlare di altro, e anche in questo caso ha potuto creare un dibattito laddove istituzioni o situazioni non riescono a creare l’occasione perché un vero confronto sia possibile. Un esempio ne sono proprio il Divergenti Film Festival organizzato dal MIT o il Performing Gender che in questa giornata hanno trovato voce.
Marta Cambiaghi
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