Pittura, tecnologia, mercato, Saatchi. Intervista con Alejandro Ospina
Tra gli artisti in mostra in “Pangaea II: Nuova arte dall'Africa e dal Sudamerica”, l'ultimo evento della Saatchi Gallery, Alejandro Ospina è un artista che rappresenta, e al tempo stesso sfida, lo status di cittadinanza nel mondo dell'arte. Colombiano, studente in America ed Europa, di base tra Regno Unito e Colombia, è artista residente a Ministry of Nomads, spazio multidisciplinare attento a mercati ed estetiche emergenti.
Sei di nazionalità colombiana ma hai vissuto, lavorato e studiato in diversi Paesi. Come giudichi la tua esperienza di artista ambientato in diversi contesti, così come l’importanza di risiedere in un luogo, oggi, rispetto alla tua carriera?
Escludendo la ma prima giovinezza in Colombia, ho vissuto e sono cresciuto in America, nell’area suburbana di Washington: un’area difficile, di passaggio, a metà strada tra natura e città. Ho poi studiato ingegneria alla Duke University e iniziato a viaggiare: in Francia, dove ho concluso una seconda laurea in belle arti, e all’estero.
Artisticamente, oggi, penso non sia più necessario risiedere in città determinanti rispetto al mondo dell’arte, come in passato. La scuola di pittura inglese, gli Young British Artists, certo, erano e sono di base a Londra; gli espressionisti astratti a New York, e via dicendo. Ora, però, emergono nuovi artisti ovunque, affrontando gli stessi problemi artistici di sempre, in piccole città, come altrove.
Pangaea II: Nuova arte dall’Africa e dal Sudamerica è la seconda parte di un progetto dedicato a estetiche da tali continenti. Quali sono, secondo te, le somiglianze artistiche fra tali macro-aree geopolitiche?
In termini di dichiarazioni artistiche, di asserzioni contemporanee, penso si possa riconoscere una mentalità globalizzata, in Pangaea, nel leggere l’uso della violenza oggi. Penso sia un elemento trasversale alle due mostre, l’unico denominatore comune che riesco a individuare, presente in artisti sudamericani così come in artisti africani. Tra i due continenti, inoltre, non vedo maggiori differenze di quelle che noto tra artisti colombiani e inglesi. Le diversità, forse, risiedono nella formazione artistica: riconosco, per esempio, che qui in Inghilterra si possano incontrare pittori migliori di quelli residenti in Colombia. Penso quindi che le diversità si notino rispetto agli studi affrontati, piuttosto che nelle proposte artistiche in quanto tali.
La mostra da Saatchi, secondo te, ha potuto indicare una rotta emergente del mercato, oltre alle ricerche artistiche comuni tra i due continenti?
Senz’altro. Charles Saatchi ha sempre fatto qualcosa di simile: scommette, in un certo modo, e mantiene sempre in moto il processo di scoperta e promozione di nuovi artisti. Allo stesso tempo introduce i nomi che acquisisce, come me, a un mercato dell’arte internazionale, mantenendo sempre attivo il processo di lancio di nuove proposte. A volte fallisce, ma vende la maggior parte delle opere che compra. E, come artista che lavora con la galleria, penso che in pochi riescano a raggiungere gli stessi suoi obiettivi.
Come valuti, e immagini, la ricezione delle due mostre in Sudamerica e in Colombia?
Il futuro di Pangaea, in tal senso, è un fatto importante da tenere in considerazione: la galleria ha sviluppato l’idea dell’evento oltre la mostra stessa, allargandola a livello internazionale. Presto sarà esposta in Brasile, e probabilmente anche in Colombia, in entrambe le sezioni, grazie al supporto di governo e privati. E, sono sicuro, in Colombia ci saranno risposte significative, specie da parte di giovani artisti.
Per quanto riguarda il tuo lavoro, la tua ricerca pittorica è inscindibile, per statement, rispetto allo studio dell’economia della visione d’età digitale.
Ho studiato belle arti e ingegneria, ingegneria elettronica, molto astratta. Nel corso dei miei studi mi sono mantenuto aggiornato su come la tecnologia influenza l’immagine. Sono sempre stato interessato, allo stesso tempo, al modo in cui la stessa tecnologia ha influenzato la pittura in passato: la stampa, la fotografia, il cinema. Di pari passo a tali innovazioni, i pittori, lavorando a un problema bidimensionale, fittizio, reagivano, rispondendo con i loro mezzi, al modo in cui guardiamo le immagini. La sofisticatezza tecnologica determina così, in un certo modo, le ragioni stesse per cui abbiamo bisogno della pittura.
Come può la pittura resistere a un ritmo di crescita elevato di tale sofisticatezza, quale quello attuale?
Il problema che cerco di indagare, oggi, è questo: cosa ha cambiato internet, effettivamente, della visione? Cosa accade di nuovo a livello psicologico, attraverso un nuovo uso del vedere? Penso che la rapidità d’accesso all’informazione, insieme alla massa d’informazione disponibile, cambi il modo in cui guardiamo alle cose. E non si verifica solo una sedimentazione di più livelli visivi, ma anche uno scarto d’interesse nei loro confronti. Penso che questo cambi il modo in cui pensiamo, la nostra stessa capacità d’astrazione. In merito alla pittura, è un mezzo non affatto facile, e una volta che la si studia, poi, bisogna metterla da parte. Anche per non cadere in nicchie di maniera. Ma è una ricerca continua, in flusso, aperta, e una sfida al problema. E finché il problema mi entusiasma, sono felice di cercarne la soluzione.
Elio Ticca
www.alejandroospina.webs.com
www.saatchigallery.com
www.ministryofnomads.com
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