Tra discorsivo e immersivo. Un convegno al Louisiana Museum
Due intensi giorni per discutere ruolo e metodologie della ricerca applicata al contemporaneo. È quanto è successo il 3 e 4 dicembre al Louisiana Museum of Modern Art, a pochi chilometri da Copenhagen. In un simposio che ha visto succedersi speaker internazionali dai profili sensibilmente differenti: dai direttori museali ai curatori indipendenti, dai docenti universitari ai coordinatori di dipartimenti di ricerca sino ad arrivare agli artisti. Noi c’eravamo.
MUSEI E UNIVERSITÀ FINALMENTE SI PARLANO
Il simposio al Louisiana Museum of Modern Art ha riunito una grande varietà di voci, chiamate a interrogarsi sullo spazio sempre più ampio che il termine “ricerca” sta conquistando nel settore del contemporaneo e sul possibile incontro tra ricerca accademica, curatoriale e artistica.
Il titolo, Between the Discursive and the Immersive: a Symposium on Research in 21st Century Art Museums, pone l’accento su quella che da sempre è stata considerata una dicotomia: da una parte la teoria, dall’altra la pratica; da una parte la speculazione, dall’altra l’esperienza. La volontà e la necessità di trovare un punto di raccordo tra le due risiede in quel “between” che auspica la possibilità di un ponte, lo stesso in grado di collegare due istituzioni che da sempre faticano a parlare tra loro, proprio per la difficoltà di trovare un linguaggio (e un terreno) comune: l’università e il museo.
LA MOSTRA COME SCRITTURA CRITICA
Ospitato da un museo, e nato dalla collaborazione con un altro museo (lo Stedelijk di Amsterdam) e con la Aarhus University, il simposio si presenta come un momento fondamentale di confronto su questi temi. In particolare, una delle domande di partenza più calde ruota attorno alla possibilità di considerare la mostra come un medium per la ricerca, nonché come uno dei possibili risultati della ricerca stessa. L’idea di poter “scrivere” attraverso mostre temporanee o anche attraverso la collezione di un museo, di usare l’esperienza fenomenologica come spazio per dimostrare una tesi piuttosto che affidarla alla pagina scritta, è una possibilità di cui si esplorano le potenzialità scientifiche, in termini di valutazione dei contenuti e dei risultati ottenuti. La sfida è trasformare la ricerca, qualcosa che nell’immaginario comune è privata, solitaria, alle prese con volumi e archivi polverosi, in un prodotto da servire al grande pubblico e, perché no?, farne cassa. È la sfida che già da tempo hanno deciso di intraprendere quei musei che si sono dotati di un dipartimento specifico, che afferisce in alcuni casi alla parte educativo-didattica, mentre resta più autonomo in altri, sul modello di un vero e proprio dipartimento di ricerca universitario.
Proprio il rapporto con il pubblico, identificato come primo destinatario dell’attività di ricerca del museo, è stato al centro di alcuni degli interventi più stimolanti: discutendo sulla possibilità della mostra come strumento per la produzione di nuovi significati, Francesco Manacorda (direttore della Tate Liverpool) ha sottolineato che, se alla base della ricerca vi è la necessità di condivisione del sapere, il museo può svolgere un ruolo cruciale data l’ampiezza del suo pubblico rispetto a quello universitario. Questo diviene infatti un luogo privilegiato prima per la produzione, poi per la diffusione della conoscenza, una “learning machine” a doppio senso, che si nutre dell’interazione con il pubblico in un rapporto di scambio continuo e dove il pubblico stesso concorre alla costruzione di senso del momento espositivo, co-producendo sapere insieme al curatore. Nella stessa sessione, Tone Hansen (direttrice dell’Henie Onstad Kunstsenter – HOK di Oslo) ha affrontato il problema dell’accessibilità ai risultati delle ricerche d’archivio e a come renderli accattivanti per un pubblico generico, mentre Anselm Franke (Head of Visual Arts and Film, Haus der Kulturen der Welt, Berlino), a partire da una riflessione sull’eredità di un approccio di stampo positivista, si è soffermato sul format delle mostre a tema come mostre-saggio, un campo da gioco entro il quale è possibile per il curatore modellare, progettare, investigare, mappare un fenomeno, circoscrivendolo e problematizzandolo, per poi giungere a una conclusione che risponde alla visione curatoriale.
NODI ANCORA APERTI, RICERCHE ANCORA ACERBE
Nell’aprire la seconda sessione, Marc Wigley (Decano alla Columbia University, New York) ha sottolineato nel suo intervento – The Museum is the Massage – come la dicotomia tra discorsivo e immersivo risponda a quella tra cervello e corpo: una separazione fittizia, laddove una mostra basata sulla ricerca racchiude in sé la potenzialità di invitare il corpo a muoversi con tutti i suoi sensi all’interno di un campo di informazioni, “nuotando nei dati” e quindi facendo un’esperienza fisica, prima ancora che intellettiva, di un archivio di testi e immagini intelligentemente predisposto.
Insieme alle sezioni principali, il simposio ha visto una serie di “Pecha Kucha”, brevi presentazioni di casi studio; qui hanno discusso, tra gli altri, Alessio Rosati per il Maxxi e Mario Pagano per il Centro Luigi Pecci, portando la loro esperienza. Sebbene tutti i casi discussi offrano spunti interessanti, anche in relazione ai diversi contesti entro i quali vengono sviluppati, quello che è mancato in questa fase del simposio è stato lo sforzo di sistematizzare questa mole di dati per tirarne fuori delle linee comuni e, quindi, delle metodologie applicabili in generale. Forse il Curating Research (citando il titolo di una raccolta di saggi a cura di Paul O’Neill e Mick Wilson, pubblicata all’inizio di quest’anno da Open Editions e de Appel) è un ambito ancora troppo giovane perché sia già possibile articolare un discorso organico e individuare un preciso campo di indagine e applicazione?
In questo senso, chi ha dato un contributo teorico – con spunti bibliografici – è stata Emily Pringle (Head of Learning Practice and Research, Tate London): a partire dai tre modelli d’uso della ricerca identificati da Carol H. Weiss nel 1979 (“Knowledge Driven”, “Decision Driven” e “Interactive”), Pringle ha associato la ricerca svolta in ambito curatoriale al secondo modello, dove un problema specifico elaborato a livello teorico viene risolto nella pratica. Per attribuire credibilità a questo tipo di ricerca valgono gli stessi criteri applicati nella ricerca scientifica: qualità dell’argomento, qualità delle domande, qualità del processo, qualità del risultato.
CROSS-DISCIPLINARE: UNO SPECCHIETTO PER LE ALLODOLE?
Più facile a dirsi che a farsi? Di certo molti dei temi affrontati girano intorno alla “domaine expertise”, ovvero alle competenze specifiche che un curatore/ricercatore dovrebbe avere, sebbene non si affronti mai apertamente la questione. In questo senso, è risultato molto acuto l’intervento di Yuval Etgar (The Ruskin School of Art, University of Oxford) che ha messo in guardia, anche ironicamente, dall’uso eccessivo della parola “interdisciplinarietà”: un passe-partout necessario per accedere a fondi e premi, ma spesso uno specchio per allodole che cela invece la predominanza di una disciplina unica, oppure una vaghezza di contenuti. C’è il rischio che per la parola “ricerca” si prospetti la stessa fine? Un concetto utile per giustificare il proprio operato, lasciando sullo sfondo la questione della “scientificità” che invece la rende troppo “accademica”?
Sono tutte questioni aperte, che questo simposio ha avuto il merito di sollevare. Un inizio necessario, che speriamo sia l’apripista per altre iniziative simili (magari in Italia?). D’altronde, parafrasando Manacorda a proposito del museo, un simposio di questo genere solleva molte domande, ma difficilmente fornisce tutte le risposte.
Alessandra Troncone
Humlebaek // 3-4 dicembre 2015
Between the Discursive and the Immersive: a Symposium on Research in 21st Century Art Museums
LOUISIANA MUSEUM OF MODERN ART
in collaborazione con Stedelijk Museum, Amsterdam e Aarhus University
www.louisiana.dk
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