Osservatorio curatori. Chiara Ianeselli
Settimo appuntamento con il nostro osservatorio sui giovani – e promettenti – curatori italiani. La parola questa volta va a Chiara Ianeselli, che ha fatto tesoro di importanti esperienze all’estero. E ora le sta mettendo a frutto nel nostro Paese.
In occasione di una mostra presso la Galleria Kasey Caplan, Jason Dodge, riferendosi alle opere d’arte, ha scritto: “We use our knowledge and experiences […] to understand them and we use our imagination to see them”.
Nel mio percorso ho seguito questa linea molto sottile, tentando di non cadere nella trappola di immaginarne un inizio e una fine. Negli anni mi ha permesso di incontrare alcuni artisti pensatori, tra cui Evgeny Antufiev, Marcos Lutyens, Christian Fogarolli, Jared Ginsburg, Oscar Santillan, Nicola Samorì, David Bernstein, Stéphanie Saadé, Ola Lanko, Francisco Camacho, Martin La Roche e alcuni altri. Una forma di attenzione particolare è ciò che riunisce queste persone e permette loro di fare da coesione nel mio essere una “pathological lateral thinker”. Credo che niente e nessuno sia isolato, potenzialmente, e nel mio lavoro mi rivolgo a discipline divergenti rispetto alla “tentazione della realtà”, così definita da Oscar Santillan.
Gli artisti che ho nominato hanno un interesse per ciò che potrebbe essere accaduto, altrove e in un altro tempo, imprese di cui narrano oppure di cui sono loro stessi protagonisti. Per sondare queste infinite possibilità e cercare la meno probabile di cui recare testimonianze si rivolgono a neuroscienziati, chirurghi, medium, archivisti, bibliotecari o trisavoli: personaggi eccentrici la cui attenzione è stata risucchiata completamente da determinati piccoli oggetti o eventi.
Si tratta di un lavoro, il mio, quello degli artisti e quello di questi terzi creatori, svolto spesso in una salutare solitudine che teme fortemente la coesione sociale e in generale soffre di un maturato disagio rispetto a forme collettive del fare artistico. Questa dimensione individuale mi spinge a lavorare spesso con gli stessi artisti in più occasioni, cercando di misurarne le reazioni in vari contesti, il più possibile vivificati dalla storia o dalla scienza. Le domande di quest’ultima disciplina attraggono gli artisti con cui lavoro e costituiscono uno tra i motori più importanti delle mie ricerche: come indicheremo tra 10mila anni agli abitanti della Terra le zone in cui sono sepolti i rifiuti chimici? Alcune di queste domande sono state poste dalla mostra The Morning I Killed a Fly, presso la Galleria Mazzoli di Modena.
Le esperienze all’estero, nel dipartimento curatoriale di dOCUMENTA (13) oppure al de Appel di Amsterdam, mi hanno concesso di incontrare curatori quali Jean-Hubert Martin e Carolyn Christov-Bakargiev, il cui lavoro procede per associazione: un elemento ne suggerisce un altro.
Nella realizzazione di una mostra seguono delle tracce, tentando di dimenticare il piano generale per seguire nella maniera più fruttuosa il processo creativo. Lo stesso è accaduto nel progetto Gares (ovvero stazioni, originariamente dal termine germanico luoghi di sorveglianza), un progetto internazionale che trova una sua espressione nello splendido Teatro Anatomico di Bologna dell’Archiginnasio con una personale di Nicola Samorì.
a cura di Marco Enrico Giacomelli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #28
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